La Bouée

Louis Feuillade

Prod.: Gaumont 35mm. L.: 137 m. Bn 

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

“L’affinità del film con il caso si mostra nella maniera più evidente attraverso la sua immutevole propensione alla ‘strada’ (…), quel luogo, in cui la casualità vince sulla sistematicità e dove l’imprevisto è la regola”, scrive Siegfried Kracauer nella sua Teoria del film (1960), indicando Eisenstein come fonte di garanzia. Quest’ultimo, nel 1944, elogiava i film di D.W. Griffith e in particolar modo le sue riprese in strada di Intolerance, dato che di questo film, visto vent’anni prima, gli era rimasta viva nella memoria una sola figura, quella di un passante casuale, indimenticabile, “che compare per una breve frazione di secondo” (e interrompe il momento più commovente di una scena d’amore). Potremmo dunque ricavare non solo un “Cinema of attractions” di Eisenstein, ma anche un “Cinema of distractions”: una forza opposta ulteriore – molto attraente e centrifuga – al cinema narrativo e alla sua diegesi chiusa.
Conosciamo tutti il fenomeno: nelle scene in esterni i cani possono attraversare tranquillamente la messa in scena ed i passanti si girano a lanciare un’occhiata veloce oppure si fermano per osservare le riprese che si svolgono in quell’istante; noi ci lasciamo distrarre o affascinare, o ci mettiamo a ridere invece di seguire l’azione del film. I cani (che a loro volta tirano dritto per la propria strada senza distrarsi, a volte si intromettono nell’azione del film e si mettono a correre anche loro negli inseguimenti) e i passanti sono i sintomi di una qualità dello spazio caratteristica del cinema precedente il 1920. La registrazione senza finzione della realtà e la messa in scena di un’apparente realtà non sono qui in contrasto, non si escludono a vicenda, ma sono in contatto, formano una continuità. L’azione del film viene allestita nella realtà, in strada. Ne risulta una macchia di finzione al centro di una ripresa dal vero; una macchia che si dilata e che raggiungerà i bordi dell’immagine filmica soltanto nel 1920. La realtà eterogenea dello spazio veniva spesso imputata al cinema di quegli anni come segno di debolezza o di scarso controllo.
Ma gli aficionados del cinema delle distrazioni lo amano invece proprio in virtù della complessità e dell’apertura dell’immagine in cui la percezione randagia può contare su esperienze e incontri imprevedibili, così che accanto all’azione principale c’è molto altro ancora da scoprire e osservare. Senza avere la pretesa dell’effetto della finzione totalizzante a cui tutto è subordinato e la cui ingenerosa economia dei mezzi prima o poi ci disgusterà, il cinema delle distrazioni ci regala, senza calcolo, intrattenimento, bellezza, divertimento e momenti immediati di “un reale sentimento contemporaneo” (Balázs). Cadono così le barriere del tempo e per un momento di grazia non ci sentiamo gli estranei e gli esclusi che siamo nei confronti dei film di cent’anni fa.
Nessuna parola sui film: sarebbe un peccato rovinare le sorprese. Che senso avrebbe annunciarle?

Ringraziamo Luke McKernan per il termine “Cinema of Distractions”; lo ha proposto per la prima volta in “Early Film Dogs” del 14 novembre 2008 nel suo blog “The Bioscope”.

Mariann Lewinsky

Copia proveniente da