ENTR’ACTE
Sog., Scen.: Francis Picabia; Adattamento: René Clair; F.: Jimmy Berliet; Int.: Jean Borlin, Francis Picabia, Man Ray, Marcel Duchamp, Erik Satie, Marcel Achard, Pierre Scize, Louis Touchagues, Rolf de Maré, Roger Lebon, Mamy, Georges Charensol, M.lle Friis; Prod.: Rolf de Maré 35mm. D.: 16′ a 18 f/s.
Scheda Film
Alla fine degli anni Sessanta René Clair ritrovò negli archivi dei Balletti Svedesi a Stoccolma, la copia originale di Entr’Acte e del prologo del balletto Relâche di Picabia e Satie, che decise di aggiungere alla versione del film del 1924. Il lavoro condotto da Henri Sauguet, che diresse e adattò la musica alla velocità di proiezione di 24 f/s, fu il primo di una serie di interventi che generarono confusione su come sincronizzare musica e film. Anche la trascrizione per pianoforte di Darius Milhaud risultò priva delle preziose annotazioni manoscritte di Roger Désormière, il primo a dirigere l’orchestra nell’esecuzione del 1924. Infatti, mentre la partitura Cinéma originariamente accompagnava Entr’Acte, la musica per il ‘prologo’ era da ricercarsi nella partitura di Relâche. Per la prima volta, grazie alla generosa collaborazione degli Archives Satie e di Ornella Volta che ha messo a disposizione copia dei manoscritti originali per orchestra, saremo in grado di ascoltare una versione molto più vicina a come il compositore intendeva sincronizzarla con il film.
Questa partitura semplice, divertente e giocosa composta da Satie per accompagnare il “film-intervallo”, è particolarmente rappresentativa dei lavori astratti di Satie negli anni Venti. La marcia funebre è rappresentata da un deferente lamento che, musicalmente, finisce completamente fuori controllo. Il film termina così com’era cominciato, con la musica di apertura ripresa nel finale, quasi a dire: “cenere alle ceneri”.
Timothy Brock
Entr’acte fornisce con grazia la chiave dell’intera opera [di René Clair] e ne espone d’un colpo solo tutti i temi, plastici, dinamici, affettivi, morali, tutte le costanti che non cessano di crescere, fiorire, mescolarsi: il sogno, la féerie, il balletto, l’inseguimento, il ritmo, questo necessario incatenamento, inevitabile, allegro che è fine a se stesso. Tetti di Parigi, bric à brac da rigattiere, ballerine, uomini vestiti in nero, ufficiali, falsi malati, luna-park, attrazioni di fiera, decorazione in stile naïf, circhi, tobogga, maneggi. È il paradiso dell’infanzia. Non manca – in apparenza – che il cuore. E quindi Clair si appropria già della confessione di Une saison en enfer: “Amavo le pitture idiote, sopra le porte, decorazioni, tele di saltimbanchi, insegne, illuminazioni popolari, romanzi delle nostre nonne, racconti di fate, piccoli libri dell’infanzia, vecchie operette, sciocchi ritornelli, ritmi ingenui”. L’amore non può mancare.
Barthélemy Amengual, René Clair, Seghers, Parigi, 1969