VON MORGENS BIS MITTERNACHTS

Karlheinz Martin

Dramma in cinque atti di Georg Kaiser.
Sc.: Karlheinz Martin, Herbert Juttke. F.: Carl Hoffmann. Scgf. e Costumi: Robert Neppach. In.: Ernst Deutsch (il cassiere), Erna Morena (la signora), Hans Heinrich von Twardowski (il giovane signore), Eberhard Wrede (il direttore di banca), Edgar Licho (il signore grasso), Hugo Döblin, Frieda Richard (la nonna), Lotte Stein (la moglie), Roma Bahn (la figlia, la mendicante, la prostituta, la maschera, la ragazza dell’Esercito della salvezza), Lo Heyn (la dama). P.: Ilag-Film Berlin.
Lunghezza al visto di censura del 15.8.1921: 1.480m. Lunghezza della copia ricostruita: 1.325m. 35mm.

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

Von Morgens bis Mitternachts è uno degli esempi più evidenti di come la storia del cinema debba essere oggi rivista alla luce di un maggiore studio delle fonti. Il film ebbe una scarsissima fortuna commerciale e l’unica copia sopravvissuta fu ritrovata in Giappone. Aveva i titoli di testa in inglese, ma nessuna didascalia. Da quell’originale furono stampate molte copie che vennero acquisite da vari archivi del mondo. Il film venne così conosciuto e studiato da intere generazioni di critici che sottolinearono, oltre alla straordinaria forza delle immagini, l’assenza, assolutamente innovativa, delle didascalie. Tutto questo fino a quando il Münchner Filmmuseum/ Stadtmuseum ottenne una copia del film nel 1985 dal National Film Center/National Museum of Art di Tokyo e nel 1987 la prof.ssa Inge Degenhardt (dell’Università di Francoforte) scoprì il visto di censura che riportava la lista di oltre cento didascalie.
Da questa coincidenza nasce il restauro che viene presentato questa sera a Il Cinema Ritrovato. La grafica del testo è stata ricostruita dal Münchner Filmmuseum sulla base delle scritte contenute nel film.
Cinema espressionista, chi non pensa immediatamente a Caligari! La storia del cinema è spesso determinata dall’accessibilità e dalla disponibilità delle copie; i film che si decompongono negli archivi hanno poche opportunità di influenzare la storia del cinema rispetto a quelli che vengono mostrati regolarmente nelle sale cinematografiche.
Senza mettere in dubbio il valore di Caligari, per capire il cinema tedesco dell’epoca bisogna conoscere anche i film che non ebbero successo commerciale o che furono dimenticati e rifiutati dalla critica.
Von Morgens bis Mitternachts fu uno di questi. Non era una grande produzione. Oggi si direbbe una produzione a basso costo. Fu girato durante le pause di lavoro da un gruppo di amici (legati anche da una forte identità professionale) che lavoravano sulle scene teatrali berlinesi.
Il film risultò così anticonvenzionale che persino il pubblico berlinese, abituato a forti shock artistici, lo rifiutò. Era privo di colore, muto e aveva una scenografia che cancellava i vuoti spaziali. Martin cercò di non nascondere questi “difetti”, anzi li sottolineò. Il suo film venne presentato come “il primo film proiettato nei colori archetipici, il bianco e il nero”. Probabilmente a causa di questo radicalismo, la critica successiva credette che Martin avesse spinto ancora più avanti il suo sperimentalismo e non avesse solo forzato l’assenza di spazi con un’immagine bidimensionale e l’assenza di colore, ma anche rinunciato alle didascalie. L’unica copia sopravvissuta non conteneva, infatti, nessuna didascalia.
In realtà i contemporanei lo avevano visto in modo diverso. Il film era stato presentato pubblicamente alla metà del 1922 al Regina-Lichtspielen di Monaco in una proiezione speciale per la stampa. Josef Aubinger ne fece un commento nella rivista trimestrale nella rubrica : “L’intensità del film non si basa sull’azione, ma sulla forza delle immagini. Anche laddove vi sono didascalie, grazie alla loro forma lapidaria, non si imprimono nella mente, non nuocciono al flusso delle immagini”.
Un critico giapponese, che aveva visto il film nel dicembre 1922 nel cinema Hong-za, pubblicò nel gennaio 1923 in un’approfondita recensione “Questo è uno dei migliori film espressionisti che siano stati fino ad ora presentati in Giappone. […] Mostra la vita umana nella sua crudezza. Nei film espressionisti realizzati fino ad ora – in Caligari ma anche in Genuine – ho riscontrato uno svolgimento narrativo molto faticoso, cosa che invece non avviene in Von Morgens bis Mitternachts. La regia di Martin rende il film sempre vivo, ovunque vi sono idee, non una sola scena priva di intuizioni […]” Dopo un’approfondita descrizione dell’azione, dell’allestimento scenografico, dei costumi e delle interpretazioni, la critica si conclude con l’osservazione che anche le didascalie “erano presenti”.
A partire da queste incongruenze abbiamo iniziato una caccia sistematica a quello che doveva essere il testo delle didascalie. Dopo l’analisi dei documenti e molti colloqui con i testimoni del tempo, potevamo essere certi che il film era stato ideato e presentato con le didascalie. In particolare, uomini di teatro come Boleslav Barlog, Friedrich Luft e l’ultima compagna di Martin, Ita Maximowa, si impegnarono nella ricerca del testo, ma tutto si arenava regolarmente nei problemi burocratici dei rapporti tra la Germania dell’est e dell’ovest. La scoperta di un visto di censura con il testo di oltre cento didascalie, infine, nel 1987, fu l’inaspettato colpo di fortuna che ci permise di risolvere questo puzzle […]. (Inge Degenhardt)
Karl Heinz Martin iniziò il suo primo film prendendo lo spunto dal radicalismo. L’argomento era costituito dal dramma di Kaiser Dal mattino a mezzanotte. L’allestimento artistico-figurativo fu affidato a Neppach: i protagonisti erano Ernst Deutsch e Roma Bahn.
Lo scenario, elaborato da Martin stesso e da Herbert Juttke, si atteneva strettamente allo schema del dramma, a parte l’unificazione dei personaggi femminili in una sola figura. Martin voleva allontanarsi dalla sfera individuale – l’obiettivo era un’eternità atemporale. Non compare, infatti, alcun personaggio individuale, ma soltanto “un cassiere”, “un direttore di banca”, “una madre”.
Il cassiere sta dietro lo sportello, affamato, con la barba lunga e gli occhi avidi: un misero pezzo di carne di fronte al rotondo pancione arricchito, che preleva il capitale nell’ufficio cassa, ride di una vita sciupata nel mondo e trasuda voluttà da tutti i pori. E dietro a questo c’è la vita del cassiere: il salotto buono con la figlia languida, misera e sentimentale, la madre smunta e sfinita dal lavoro, la nonna inferma, ormai ridotta a poca carne indolenzita. E tutta la terribile uniformità della felpa, degli elicrisi, dei centrini bianchi. E tutto l’insulso profumo della ripetitività esistenziale, dell’immutabile, del sempre-uguale.
Una fiamma arde nel cervello del cassiere: afferrare per una volta il mondo, per una volta la vita, per una volta lo spasso, la voluttà; afferrare per una volta con tutti e due i pugni, dappertutto, dovunque. Ha rubato, è sparito con i soldi: colpo in famiglia, stupore sommesso in banca. E la polizia cattura con aderenti tentacoli di ragno… ma il cassiere va ramingo verso la grande vita. Da qualche parte balena una consapevolezza: la vita non è fuori, ma deve provenire dall’interno. Nella notte invernale si svolge una conversazione con uno scheletro fantastico, situato su un albero rattrappito, che ritorna alla vita distendendo i rami come una piovra pigramente avvinghiata. La vita nella sua pienezza, la vita nella sua magnificenza. Vizio, puttane, scintillio di luci: il cassiere in frac, nobile, superiore, la crème. A piene mani il gesto del ricco scialacquatore, che getta soldi intorno a sé – ma il gesto resta vuoto e i soldi nelle tasche del frac. Le donne si chinano su di lui, le schiene si piegano profondamente, morbide mani scivolano sulle sue guance – una debole risata: è questa la vita? Una danza intorno alla cassaforte. Ciò che è in fiore viene corroso, una donna diventa un teschio. E così, frustrato dalla sua stessa ombra lungo i margini di un precipizio, egli si ferma davanti alla macchina imperturbabile della carità: l’Esercito della Salvezza. Ella è là, una ragazza in uniforme, una creatura esile, avulsa dalla vita, misera, solo rigida penitenza, solo preghiere singhiozzate sul banco dei peccatori. È questo vivere? Confessare? Fare penitenza, inginocchiarsi a mani giunte? Egli la segue bramoso. E lei ha già soffiato il suo nome alla polizia, che già si precipita dentro tra uno squillo di tromba e un girotondo di preghiere – una carabina, il teschio, tutto è solo morte, la maschera penosamente imbellettata della vita. La vita? La luce si specchia nell’acciaio: una pressione, un lampo e la Browning ha regolato il conto. Cos’è la vita! Una caccia, che si svolge dal mattino a mezzanotte, all’anima, alla vera anima immortale. Un tratto pieno di fango, fra l’avidità e la fine.
Martin ha reso molto efficacemente l’intensità della vicenda. I personaggi sono messi in scena sulla base di pochi tratti, ma molto accentuati. Il ritmo della loro esistenza viene trasposto nei gesti. L’interpretazione è costruttivamente dedotta dalla dinamica dell’azione, per cui la scena risulta inanimata. L’architetto Neppach ha lavorato in bianco e nero: figurini, paesaggi, interni – tutto si basa su un effetto grafico lineare, sull’effetto cinetico di superfici e linee, sul chiaroscuro. Il cammino nella notte, presso l’albero rinsecchito: un serpente bianco, modellato da superfici scure; e, in primo piano, un albero massiccio, un gioco di rami allungati. L’operatore Hoffmann ha impostato la fotografia secondo criteri pittorici, e ne risulta un insieme di grigio su grigio. Le figure si sono spogliate della loro forma organica: sono parti, elementi formali della concezione scenografica, contribuiscono a strutturare il quadro e vengono lacerate dalle chiazze di luce e dalle strisce dipinte su di esse. Ma questo muoversi di esseri umani che valgono soltanto come elementi formali impedisce allo spettatore ogni accesso al film. Quello che egli vede sono solo smorfie e contorcimenti, a cui si accompagnano freddezza, fissità, estraneità.
Il film non è stato proiettato. In Giappone pare abbia avuto successo. (Rudolf Kurtz, Expressionismus und Film, Berlino 1926, traduzione di Pier Giorgio Tone per l’edizione italiana del volume)

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