THE FIRST AUTO
S.: Darryl F.Zanuck. Sc.: Anthony Coldeway. F.: David Abel. Mus.: Herman Heller. In.: Barney Oldfield, Patsy Ruth Miller (Rose Robbins), Russell Simpson (Hank Armstrong, Charles Emmett Mack (Bob Armstrong), William Demarest (Dave Doolittle), Frank Campeau, Paul Kruger. P.: Warner Bros., The Vitaphone Corp. 35mm.
Scheda Film
Film che riteniamo esemplare di quel primo, confuso e ricco momento della transizione dal muto al sonoro che vede interagire ed essere compresenti i modi del cinema muto e quelli nascenti del cinema parlato, The First Auto precedette di tre mesi l’uscita di The Jazz Singer e appartiene a quella preistoria del parlato che tropo spesso viene dimenticata e che i recenti restauri dei primi film e cortometraggi Vitaphone hanno riportato all’attenzione.
Crediamo opportuno riportare ampi brani dell’articolo di Rick Altman pubblicato su Cinegrafie (n.6, ed. Transeuropa, 1993) che prende proprio The First Auto come spunto per una discussione del primo cinema sonoro americano.
“Diretto da Roy Del Ruth, autore sperimentato della Warner, tratto da un racconto di Darryl Zanuck, dai meriti ben noti, The First Auto, offre un’occasione straordinaria per vedere l’industria hollywoodiana all’opera: avanza alla cieca, sceglie i nuovi metodi a tastoni, usa più il tatto che la logica. isogna notare – a partire dai titoli di testa del film – che la partitura non è stata composta e registrata, ma compilata e sincronizzata. Ovvero, il cinema del 1927 è ancora performance e rappresentazione dal vivo, non è ancora divenuto il prodotto standard finito e pronto per essere consumato come diverrà in seguito. (…)
La sequenza iniziale della corsa in The First Auto ci offre l’esempio perfetto di un altro aspetto dell’inattesa continuità sonora che esiste tra muto e parlato. Che la musica conservi un volume costante, indipendentemente dai piani utilizzati nelle diverse scene, non ci stupisce. Questa musica infatti, che provenga dalla buca dell’orchestra come per il muto, o che sia stata registrata in studio come per il parlato, resta ugualmente non-diegetica, e perciò senza nessun appiglio diretto alla narrazione e all’immagine che racconta.
Tutt’altra cosa è invece la rumoristica. Come è possibile che il rumore dei cavalli mantenga lo stesso volume pure a diversa distanza apparente tra lo spettatore ed i fantini? Da un lato ci basta riconoscere qui la sopravvivenza di una pratica propria del cinema muto. Il rumorista è divenuto un mestiere specializzato nel cinema parlato, mentre all’epoca del muto era appannaggio dell’orchestra, in particolare del batterista. Il batterista, coprendo il volume dell’orchestra, produceva il rumore non dei cavalli come si vedevano sullo schermo, ma dei cavalli tout court. Non si trattava di imitare il passo di un dato cavallo su un suolo particolare, sentito ad una distanza determinata e a delle condizioni specifiche. Al contrario, si doveva evocare nello spettatore l’idea stessa del cavallo che galoppa. Stupisce invece che una pratica così poco realistica sopravviva all’avvento del parlato, e non soltanto nel campo poco sperimentato della rumoristica.
(…) È giunto perciò il momento di abbandonare un vecchio mito: il cinema sonoro non ha imparato a parlare guardando il cinema muto, ma ascoltando i media sonori che durante gli anni Venti hanno creato il primo paesaggio sonoro moderno. I discorsi pubblici del dopoguerra sono annoverati tra le prime utilizzazioni della nuova tecnica di sonorizzazione, sviluppata durante la guerra a fini militari. La sonorizzazione degli spazi pubblici, messa a punto dai laboratori Bell – sempre loro! – tra il 1919 ed il 1923, avrà degli effetti che la nostra epoca faticherà a comprendere. Bisogna ricordare che gli anni Venti sono il primo momento dalla creazione di un mondo in cui ci si può rivolgere a centinaia di persone contemporaneamente. Gli effetti di questa nuova sonorizzazione sono ovunque riscontrabili nei primi film sonori. Tra il 1927 ed il 1928, la maggior parte dei film alternava le didascalie ai dialoghi registrati. Ma come veniva operata questa partizione? Quali erano i dialoghi da proporre registrati e quali come didascalie? Come ci suggerisce quel “Come on Hank!” della sequenza di The First Auto, la scelta della registrazione cade soprattutto sulle parole pronunciate ad alta voce, destinate ad essere udite da lontano. In questo periodo, il dialogo normale solo di rado utilizza la registrazione sincronizzata. È invece il “discorso megafono” – per così dire – che beneficia di questo statuto speciale. L’amplificazione cinematografica era stata semplicemente integrata ad un altro tipo di amplificazione più conosciuta, ovvero: i megafoni e gli altoparlanti che venivano utilizzati da qualche anno nei discorsi pubblici.
In The First Auto, ad esempio, la parola viene registrata quando si chiama qualcuno, per annunciare l’esito di una corsa o per fare il tifo. Il dialogo ordinario conserverà l’abituale forma delle didascalie, come si può vedere in molte sequenza.
Alcune parole sono proferite, altre sono trascritte – questo film non sa proprio quello che vuole. D’altra parte la mancanza di omogeneità è uno degli aspetti del muto che sarà regolarmente rafforzato dai primi film sonori. Per noi è difficile non vedervi che una mancanza di gusto in questa alternanza di didascalie e parole sincronizzate, a volte contraddittorie. Accozzaglia di stili, di procedimenti di ogni tipo: quest’epoca ne è piena. Il parlato vicino alle didascalie, il colore che segue il bianco e nero (come, ad esempio, alla fine di The First Auto), sequenze comiche inserite nel melodramma, realismo e simbolismo insieme; durante i primi anni del cinema parlato, ma anche negli anni Trenta, l’omogeneità non sarà affatto ritenuta quel valore irrinunciabile che diverrà in seguito.