Szegénylegények

Miklós Jancsó

T. it.: I disperati di Sandor. T. int.: The Round-Up. Scen.: Gyula Hernádi. F.: Tamás Somló. M.: Zoltán Farkas. Scgf.: Tamás Banovich. Su.: Zoltán Toldy. Int.: János Görbe (János Gajdar), Zoltán Latinovits (Imre Veszelka), Tibor Molnár (Kabai), Gábor Agárdy (Torma), András Kozák (Kabai figlio), Béla Barsi (Foglár), József Madaras (Magyardolmányos), János Koltai (Béla Varjú). Prod.: MAFILM IV. Játékfilmstúdió. Pri. pro.: 6 gennaio 1966. 35mm. D.: 87′. Bn.

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

Anni intorno al 1860: il governo austro-ungarico si appresta a sterminare quel che resta dei ribelli di Kossuth, i combattenti della libertà, gli uomini di Sandor. È il punto di partenza di un gioco crudele tra gatto e topo, una lezione sulla soppressione dell’identità (e il finale del film una delle più agghiaccianti rappresentazioni della Storia che si compie). Allo spettatote non vengono forniti facili soggetti d’identificazione; la psicologia è spazzata via (pure essendo allo stesso tempo spietatamente presente) tutto si concentra sul sistema e sulla storia, sulla burocrazia e sull’opportunismo, sulle utopie che non hanno avuto futuro.
Passato o presente. È questo il cuore del cinema ungherese degli anni Sessanta. Gli eventi di I disperati di Sandor hanno luogo nel decennio che si apre con il 1860, ma, nelle parole di Jancsó, “tutti sapevano che si stava parlando degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento” semplicemente, per rispondere a un’interrogazione proveniente da Mosca o da Berlino Est era più facile obiettare che si trattava “di una film storico, non riferito ai nostri tempi”…
La corrispondenza tra passato e presente, d’altra parte, poggia su solide basi: prima di tutte la puszta che si estende immensa, fuori dal tempo, fino all’eternità. I disperati di Sandor fu la prima manifestazione di un ‘metodo’ destinato a diventare leggenda del cinema moderno. Ancora nelle parole di Jancsó: “Girare scene di dodici minuti con una cinepresa a 35mm significava mettere insieme una complessa struttura di binari; si cominciava la scena la mattina presto e si finiva che faceva buio”. Un lavoro da virtuosi: “Il nostro metodo implicava un certo grado di follia, e la sua riuscita dipendeva dal fatto che tutti, attori e tecnici, fossimo amici diversamente non sarebbe stato possibile” (un bel paradosso, dunque: camaraderie dietro le macchine da presa, e davanti la Storia, homo homini lupus).
Il metodo significava un rinnovamento del montaggio, trasferito all’interno del pianosequenza quello che Marcel Martin ha definito ‘montaggio virtuale’. In questo magnifico Scope in bianco e nero, è la storia nuda e brutale che abbiamo davanti, e l’uomo intrappolato nella Storia. Scrive Michel Estève “Spezzando il corso della narrazione lineare, contraendo la durata, le ellissi restituiscono il clima d’angoscia soffocante della prigione. I contrasti fotografici dei neri e dei bianchi, molto duri, molto freddi, sia nel décor sia nei costumi, sottolineano la crudeltà dei boia. Nessuna partitura musicale, ma una colonna sonora di evidente realismo: il vento, la pioggia, gli zoccoli dei cavalli, le catene dei prigionieri. Tutto è uno spazio-prigione che si chiude intorno ai prigionieri. Lo spazio esterno sembra dilatarsi, aprirsi nei piani d’insieme e nella profondità di campo della puszta ungherese: ma non offre in realtà che un sogno, un’illusione di libertà: lo spazio (la pianura) si spalanca solo sulla morte”.
Se chiediamo al cinema di dispiegare davanti ai nostri occhi visioni della Storia, i kolossal storici alla Quo Vadis? sono la risposta ‘leggera’, mentre I disperati di Sandor rappresenta probabilmentre la risposta più profonda e coinvolgente alla nostra domanda: un momento alto nell’arte di Miklós Jancsó e nel cinema moderno, dove forma, metodo e oggetto diventano una cosa sola.

Peter von Bagh