Silver Lode

Allan Dwan

T. it.: La  campana  ha  suonato. Scen.: Karen De Wolf. F.: John Alton. M.: James Leicester. Scgf.: Van Nest Polglase. Mus.: Louis Forbes. Int.: John Payne (Dan Ballard), Lizabeth Scott (Rose Evans), Dan Duryea (Fred McCarthy), Dolores Moran (Dolly), Emile Meyer (sceriffo Woolley), Robert Warwick (giudice Cranston), John Hudson (Mitch Evans), Harry Carey Jr. (Johnson), Alan Hale Jr. (Kirk), Stuart Whitman (Wicker), Frank Sully (Paul Herbert), Morris Ankrum (Zachary Evans). Prod.: Benedict Bogeaus per Pinecrest Productions. Pri. pro.: 24 giugno 1954. 35mm. D.: 80′. Col.

info_outline
T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

“Se c’è un tema comune alla sua intera opera” scrive Peter Bogdanovich nell’introduzione all’intervista con Allan Dwan “ha molto a che fare con la varietà dei suoi personaggi, con l’ottimismo, con l’umanità; ritroviamo dovunque la sua generosità e il suo humour spesso geniale”. I film di Dwan parlano di persone semplici, delle loro vite e della loro innocenza, vite normali e dignitose in cui si riflette “un senso profondo dello spirito umano, indomito e immortale”. E dunque, che cos’è successo alla gente in Silver Lode? Il film ci arriva come un messaggio da un’epoca dura gli anni del maccartismo, dei quali è una finissima testimonianza, pur se all’epoca fu accolto come banale titolo di seconda classe (John Payne al posto di John Wayne…). Tra i tanti grandi western del più grande decennio che il genere abbia conosciuto, nessuno più di Silver Lode sembra fedele alla norma; Serge Daney ha parlato di una air de famille dell’epoca, l’epoca del ‘western interiore’, a un tempo arcaico e raffinato, con un che di magico nel suo dipanarsi sempre intorno alla “storia di un segreto”. Siamo all’inizio  di un periodo favoloso nella produzione di Dwan: dieci film in cinque anni con il produttore Benedict Bogeaus e (soprattutto) con il leggendario direttore della fotografia John Alton (seguiranno film come Cattle Queen of Montana, Tennessee’s Partner, Slightly Scarlet, The River’s Edge). Silver Lode è un capolavoro singolare e tempestivo, non solo l’occasionale incontro con  una sceneggiatura di particolare qualità. L’immagine che Dwan qui riesce a comunicare con tanta forza è profondamente e personalmente sentita, prima ancora che portata sullo schermo: l’immagine della pace mentale, del paradiso perduto. La bellezza concettuale di tutto ciò è che quest’immagine prismatica emerge direttamente dalla mise-en-scène, come ha indicato Jacques Lourcelles scrivendo che il film è “di un classicismo assoluto”: “Sul piano drammatico, Dwan utilizza con genialità e forse con più intensità di quanto si sia mai fatto la disciplina e la costrizione delle tre unità di luogo, tempo e azione. Per quel che riguarda la regia propriamente detta, essa assicura il trionfo del découpage classico, arricchito di prodigiosi piani-sequenza in movimento che danno rilievo ai momenti più forti dell’intreccio”. Parlando del film Dwan era, secondo il suo stile, modesto: “Non era proprio un film politico, come è stato detto. Piuttosto la descrizione satirica di una piccola comunità ipocrita. Il tema mi piaceva molto: un uomo viene falsamente accusato, e altrettanto falsamente verrà scagionato”. Forse Silver Lode non era proprio un film politico, ma i suoi snodi ironici funzionano comunque – il ritratto di una stagione politica e del suo vacuo paesaggio mentale non è meno vigorosa per il fatto che veste i panni del western. L’apparente distanza è anzi quasi un vantaggio: acuisce il senso di terrore psicologico, di conformismo brutale, del male che serpeggia in forma demagogica attraverso tutte le sacre istituzioni: la scuola, l’ufficio del sindaco, il tribunale, la chiesa. Nessuna speranza arriva da nessuna parte: la corrente di menzogne, reticenze, vigliaccherie, avidità e false testimonianze è ininterrotta. È il riflesso del profondo disgusto per una civiltà che si è corrotta, per cittadini mentalmente infiacchiti e aggressivi che si trasformano con sconcertante facilità in una massa pronta al linciaggio. Infine, quel dettaglio sempre citato: il cattivo, interpretato dal magnifico Dan Duryea, ha persino un nome familiare: McCarthy…

Peter von Bagh