Once Upon A Time In America (extended Version)

Sergio Leone

T. it.: C’era una volta in America. Sog.: dal romanzo The Hoods di Harry Grey. Scen: Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli, Franco Arcalli, Franco Ferrini, Sergio Leone. F.: Tonino Delli Colli. Mo.: Nino Baragli. Scgf.: Carlo Simi. Co.: Gabriella Pescucci. Mu.: Ennio Morricone. Int.: Robert De Niro (David ‘Noodles’ Aaronson), James Woods (Maximilian ‘Max’ Bercovicz), Elizabeth McGovern (Deborah Gelly), Joe Pesci (Frankie Manoldi), Burt Young (Joe), Tuesday Weld (Carol), Treat Williams (James Conway O’Donnell), Danny Aiello (il capo della polizia Aiello), Richard Bright (Chicken Joe), James Hayden (Patrick ‘Patsy’ Goldberg), William Forsythe (Philip ‘Cockeye’ Stein), Darlanne Fluegel (Eve), Larry Rapp (‘Fat’ Moe Gelly), Robert Harper (Sharkey), Jennifer Connelly (Deborah ragazza). Prod.: Arnon Milchan per The Ladd Company. Pri. pro.: 17 febbraio 1984 DCP. D.: 245’. Col. 

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

Tra la preparazione di C’era un volta il West (1968) e quella di Giù la testa (1971), Sergio Leone si appassionò a un romanzo di quattrocento pagine sui gangster ebrei, The Hoods (in Italia, Mano armata). Harry Gray, pseudonimo dell’autore, lui stesso unex gangster, lo aveva scritto mentre scontava la sua pena a Sing Sing. Leone lo incontrò a fine anni Sessanta e rimase affascinato da questo ex malvivente, che rispondeva a monosillabi (“Sì, no, forse” fu tutto quello che riuscì strappargli), che non aveva nulla della gloria dei banditi  raccontati da Hollywood e che condivideva con lui il medesimo immaginario, formatosi nelle sale cinematografiche. Leone capì che The Hoods gli avrebbe consentito di lavorare non più su personaggi mitici ma sul Mito stesso: sulla sua trasmissione, sui generi cinematografici e sulle loro filiazioni, sull’infanzia del Novecento, in una specie di Ricerca del tempo perduto collettiva. La costruzione di questa cattedrale (così Enrico Medioli chiamò il lavoro preparatorio) sarebbe durata a lungo. Tra Giù la testa e Once Upon a Time in America passarono undici anni. In un’intervista, scherzando sull’enorme tempo impiegato per realizzare il film, Leone avrebbe citato Joseph Conrad: “Credevo fosse un’avventura. Invece era la vita”. Secondo i suoi collaboratori, tra il 1967 e il 1977 Leone non lavorò su un copione, ma solo su infinite versioni orali. I diritti cinematografici del romanzo non erano disponibili e dopo molti e inutili tentativi sarà Alberto Grimaldi, già produttore di Leone, ma anche di Fellini, Pasolini, Bertolucci, a riuscire a ottenerli e a chiedere a Norman Mailer di scrivere una prima  sceneggiatura. Leone però non trovò interessante quella prima stesura, e per scrivere si circondò di uno straordinario gruppo di sceneggiatori italiani: Kim Arcalli (geniale collaboratore di Bertolucci), Enrico Medioli (autore di sette sceneggiature per Visconti), Leo Benvenuti e Piero De Bernardi (che con Amici miei erano stati capaci di raccontare il tema dell’amicizia in maniera totalmente nuova). Al gruppo si aggiunse in un secondo momento un giovane critico, Franco Ferrini (e molto più tardi, nella fase finale di stesura dei dialoghi inglesi, Stuart  Kaminsky). Medioli dirà: “Nessuno di noi sceneggiatori è americano, nessuno di noi è ebreo, nessuno di noi è gangster, tutto è filtrato attraverso il cinema, più che attraverso la letteratura”. Al centro del racconto ci sono brandelli della memoria di Noodles, velati dall’oppio, intrisi di nostalgia,  sfuggenti a ogni ordine cronologico, perché Once Upon a Time in America non è un biopic: è il fluire della vita di un uomo che per trent’anni non ha fatto che pensare e ripensare alla propria esistenza, maniacalmente ripercorrendo frasi, gesti, suoni del passato. Il risultato del lungo lavoro di scrittura produce una sceneggiatura di circa cinque ore, troppo per Grimaldi, reduce dalla difficile esperienza di Novecento (che era uscito in due parti). Nel 1980 Leone incontra Arnon Milchan e la Warner e il film sembra finalmente arrivare alla  svolta finale, anche perché Robert De Niro accetta di essere Noodles. De Niro offre a Leone la possibilità “di fare Pinocchio con un bambino vero”, liberandolo dal ruolo di burattinaio e consentendogli di divenire il narratore. La coppia James Woods e Robert De Niro ha aggiunto alla sceneggiatura una forza realista e autentica che il cinema di Leone non aveva ancora conosciuto. Se è Leone il cantore di questo inno al cinema, occorre ricordare che se non avesse avuto al suo fianco alcuni dei massimi artisti del cinema italiano non avrebbe  potuto creare un brillante così prezioso, ricco di sfaccettature e luminoso. La colonna sonora di Ennio Morricone, in simbiosi perfetta con le immagini come nei precedenti film di Leone, per la prima volta usa alcuni brani famosi del Novecento (oltre alla Gazza ladra di Rossini) e diventa parte integrante della narrazione: sorregge gli incastri della struttura narrativa e permette di collocare temporalmente i ricordi di Noodles. Morricone l’aveva preparata già a metà anni Settanta e fu utilizzata (come si usava nel muto) durante le riprese, per ispirare la recitazione degli attori. Nove mesi di riprese a Parigi, sul lago di Como, a New York, Roma, Miami, Venezia, nel New Jersey, a Montreal. Once Upon a Time in America è uno degli ultimi colossal realizzati prima del digitale. Tutto quello che vediamo è realmente esistito davanti  alla macchina da presa. Lo scenografo Carlo Simi, la costumista Gabriella Pescucci, il direttore della fotografia Tonino Delli Colli hanno compiuto il miracolo di restituire il clima visivo di tre epoche, lavorando tra Nord America ed Europa con minuziosa cura del dettaglio, con scrupolosa veridicità. A montaggio avanzato esplode il problema della durata: la prima versione dura quattro ore e venti minuti, Milchan e la Warner si aspettavano un film di non oltre 160 minuti. Ma Leone aveva in mente il suo film. Alla fine della lotta la versione americana, con le scene rimontate in senso cronologico, dura 1 ora e 34 minuti e non viene firmata da Leone; la versione europea, presentata a Cannes nel maggio del 1984, dura 3 ore e 49 minuti. Dalla versione europea vennero allora eliminate diverse sequenze che oggi, grazie alla testarda volontà della famiglia Leone, alla perseveranza della Film Foundation, al sostegno di Gucci, e all’avente diritto New Regency, abbiamo potuto ritrovare e reinserire in questa ‘ricostruzione’ di Once Upon a Time in America. Tra queste sequenze, molti passaggi che spesso Leone ricordava, con il rammarico di avervi dovuto rinunciare: come l’apparizione di Louise Fletcher, premio Oscar per Qualcuno volò sul nido del cuculo, che interpretava la parte della direttrice del cimitero ed era scomparsa dal film, e la scena dove Deborah  (Elizabeth McGovern) recita a teatro il ruolo di Cleopatra. La versione ricostruita dura ora 4 ore e 15 minuti. In Once Upon a Time in America ci sono tutti gli elementi che caratterizzano il cinema di Sergio Leone: epica, morte, amicizia, ricordi, rapine, tradimenti, un duello lungamente annunciato, una presenza ‘visiva’ della colonna sonora, l’uso stupefacente del dolly e dei movimenti di macchina. Eppure il film è molto diverso dai suoi precedenti: thriller, melodramma, citazioni dei classici del cinema gangsteristico, ma anche di Chaplin, di Welles e del neorealismo, convivono in un viaggio verso l’oblio e la morte nel quale lentamente scopriamo la disperazione di Noodles, all’interno di una grandeur cinematografica e irreale. In questa storia circolare, in cui tutto viene sempre rinviato e tutto resta immutabile, in un’America che non è più il paese dove si avverano i sogni, ma un luogo oscuro dove una parabola di potere può finire in un tritarifiuti, Noodles è un antieroe che ha l’aura del personaggio epico, un esiliato che non può più ritornare a casa, perché non c’è più casa che non sia solo un ricordo drogato. Leone mette in scena ancora una volta i miti umani, ma qui anche il miracolo e il mistero della loro esistenza, osserva gli accadimenti in una prospettiva cosmica, scruta i suoi personaggi con pietà e commozione. Il memorabile sorriso estatico di De Niro, nel finale, è un tradimento liberatorio delle convenzioni del cinema, ma è anche la logica conclusione di un film che per Leone era “una sorta di balletto di morte della nascita di una nazione… [dove] tutti i miei personaggi guardano in faccia la morte”. Sarà l’ultima inquadratura del suo cinema. Sergio Leone morirà nel 1989, mentre, a casa sua, vedeva il film di Robert Wise Non voglio morire.

Gian Luca Farinelli

 

Contrariamente a quanto si possa pensare, anche film relativamente recenti possono realmente necessitare di un restauro. La sfida del restauro digitale di Once Upon a Time in America era quella di riportare sul grande schermo il capolavoro di Leone di cui ormai circolavano solo copie rovinate dalle troppe proiezioni e a un iniziale stadio di decadimento del colore. Il restauro del film, una lunga operazione nel quale vari laboratori – tra i più qualificati al mondo – sono stati coinvolti, ha permesso non solo di poter disporre di nuovi supporti digitali per la proiezione e di nuove copie in pellicola, ma anche di creare nuovi elementi di conservazione.

Il film venne postprodotto in Italia ma oggi il negativo originale e molti altri elementi di lavorazione sono conservati a Los Angeles. Il negativo camera originale 35mm è stato scansionato a risoluzione 4K presso Warner Bros. Motion Picture Imaging (MPI). I file scansionati sono stati poi lavorati a 4K presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata della Cineteca di Bologna, dove è stato interamente effettuato il restauro digitale fotogramma per fotogramma. La fase più impegnativa e delicata è stata senz’altro la correzione colore che si è mossa nella direzione di ricreare l’aria fumosa e fuligginosa degli anni Venti e Trenta e quella più fredda e pallida di fine anni Sessanta. Come riferimento in questa fase sono stati fondamentali la copia positiva personale di Martin Scorsese – conservata al MoMA di New York – e il contributo di chi al film aveva lavorato concretamente e che ha potuto portare il suo ricordo diretto e la sua esperienza. La sfida maggiore è senz’altro rappresentata dalla volontà di ristabilire il primo montaggio voluto da Sergio Leone, recuperando le sequenze successivamente espunte a causa di una durata giudicata eccessiva dalla produzione. Per mesi abbiamo raccolto le fonti, orali e cartacee, che testimoniavano la piena ‘autorialità’ di quel primo montaggio. Consapevoli della delicatezza dell’intervento, abbiamo quindi inserito le sequenze ritenute perdute all’interno di una extended version. Fotogrammi di testa e coda delle sequenze tagliate ci hanno consentito di individuare esattamente il punto in cui erano state montate. Tecnicamente l’omogeneità fotografica delle sequenze inedite era il maggior problema, poiché di queste scene non esistono più i negativi. Gli unici materiali a disposizione sono degli scarti di positivi di lavorazione, conservati in condizioni molto critiche. A rendere più difficile il compito, ha contribuito il fatto che erano stati stampati senza particolare cura poiché in origine facevano parte delle copie lavoro che venivano visionate dagli assistenti al montaggio e dai montatori del suono come riferimento per le lavorazioni.

Un fondamentale e prezioso contributo al lavoro di restauro è stato apportato da Claudio Mancini, direttore di produzione; da Franco Ferrini, uno degli sceneggiatori del film che ci ha fornito la sceneggiatura originale che circolava sul set (testo di conferma per l’inserimento delle sequenze inedite); dai montatori Patrizia Ceresani e Alessandro Baragli, assistenti di Leone; da Fausto Ancillai, Ennio Morricone e dai figli di Leone, Andrea, Francesca e Raffaella, che hanno fortemente sostenuto l’intera operazione di restauro. A tutte queste persone va il nostro più sentito ringraziamento.

Davide Pozzi

Copia proveniente da

Restaurato nel 2012 da Fondazione Cineteca di Bologna presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata in collaborazione con Andrea Leone Films, The Film Foundation e Regency Enterprises. Restauro finanziato da Gucci e The Film Foundation. Scansione 4K: Warner Bros. Motion Picture Imaging (MPI)