Most Dangerous Man Alive
Sog.: dal racconto The Steel Monster di Phillip Rock e Michael Pate. Scen.: James Leicester, Phillip Rock. F.: Carl Carvahal. M.: Carlo Lodato. Mus.: Louis Forbes. Int.: Ron Randell (Eddie Candell), Debra Paget (Linda Marlow), Elaine Stewart (Carla Angelo), Anthony Caruso (Andy Damon), Gregg Palmer (tenente Fisher), Morris Ankrum (capitano Davis), Tudor Owen (dottor Meeker), Steve Mitchell (Devola), Joel Donte (Franscetti). Prod.: Benedict Bogeaus per Trans-Global Films 35mm. D.: 82′. Col.
Scheda Film
Come accade solo nei film di Dwan, dopo un paio di minuti siamo già in medias res. Un uomo di nome Eddie Cantell fugge da un convoglio di condannati a morte diretto a San Quintino; insignificante nell’aspetto, ha in realtà una storia alle spalle, è un self-made-man che ha costruito un impero e che ne è stato derubato mentre si trovava in prigione – una moderna parabola di successo con un finale altrettanto moderno, in un mondo governato da mani sempre più sporche. Gente di successo sono gli ex sodali di Eddie, banali criminali senza una sola idea o qualità – quel che sanno fare è solo rubare, uccidere e distruggere. La società ufficiale, a cominciare dalla polizia, completa il deprimente panorama. Le facce che vediamo in questo lucido film sono quasi una personificazione di quel connubio tra forze militari e industriali che fu la visione da incubo evocata da Eisenhower nel suo discorso d’addio alla presidenza, nel 1961. Così Eddie è stato incastrato con una falsa accusa e finirà con l’uccidere davvero un uomo, quasi come un automa, e con l’aiuto di coloro che vogliono farla finita con lui – ovvero tutti, dai poliziotti ai criminali (ammesso che sia possibile distinguere). Diventa un killer suo malgrado, il che non significa che a sua volta lui sia un tipo amabile o indifeso; è armato e pericoloso, ma pur sempre un pesce piccolo rispetto a quelli che gli stanno alle calcagna. Finché a Eddie non succede qualcosa che lo trasforma materialmente: colpito dalle radiazioni, diventa invincibile. Potrebbe essere già morto (forse qui c’è un’eco di The Walking Dead, lo strano incontro tra Michael Curtiz e Boris Karloff), dunque le armi non lo feriscono; è solo una patetica cavia al servizio della scienza. Il suo percorso di morte lungo quarantotto ore si svolge tra uffici anonimi e il deserto, il miglior deserto del cinema moderno. Quel che per Antonioni sarebbe stato un set è qui realtà bruciante e concreta – il paesaggio di un’anima. Eddie è il tipo di non-personaggio, un uomo qualsiasi intrappolato dagli eventi, che Dwan capiva così bene. Aveva persino una sua speciale ‘marca’ di attori, quasi non-attori, che interpretavano questi ruoli nell’ultima (e a questo punto possiamo dire più grande) stagione della carriera: John Payne, Ronald Reagan, in questo caso un certo Ron Randall che non si sarebbe fatto ricordare in nessun altro film. La sua faccia – come quelle dei personaggi di Edgar Ulmer – è la perfetta faccia di un uomo che sembra essere arrivato tra noi dal regno dei morti, che rivolge un’ultima occhiata alla terra e ai suoi abitanti e osserva uno scenario ben poco consolante o umano. La sua visione prevede anche una certa tensione erotica, come in Slightly Scarlet o in River’s Edge. Eddie è diviso tra due donne – la dolce Elaine Stewart e la più minacciosa pupa del gangster Debra Paget, che promette: “Farò lo stesso a te…”, e riceve dall’uomo la memorabile risposta: “Puoi farmi di nuovo di carne e sangue?”. L’inquietante finale chiude la vita senza scampo di Eddie con un’enorme esplosione, una tempesta di fuoco nella quale la nostra non-persona semplicemente si dissolve. Eppure la sua vita continua, polvere tra le polveri nucleari, nell’alienazione e nella distanza, pericoloso agli altri e a se stesso. Questo toccante post-mortem è anche l’addio del regista Allan Dwan. Potrebbe essere l’inaudito post-scriptum a una fantastica carriera cinematografica – un film senza nessuna simpatia per la società esistente, firmato da un ottimista che aveva diretto centinaia di film sorretti da una commovente fiducia nell’integrità degli esseri umani.
Peter von Bagh