LA DOLCE VITA
Sog.: Federico Fellini, Ennio Flaiano, Tullio Pinelli; Scen.: Federico Fellini, Ennio Flaiano, Tullio Pinelli, Brunello Rondi, Pier Paolo Pasolini; F.: Otello Martelli; Mo.: Leo Catozzo; Scgf., Co.: Piero Gherardi; Op.: Arturo Zavattini; Ass. op.: Ennio Guarnieri; Mu.: Nino Rota; Su.: Oscar Di Santo, Agostino Moretti; Ass. regia.: Giancarlo Romani, Gianfranco Mingozzi, Lilli Veenman; Int.: Marcello Mastroianni (Marcello Rubini), Anita Ekberg (Sylvia), Anouk Aimée (Maddalena), Yvonne Furneaux (Emma), Magali Noël (Fanny), Alain Cuny (Steiner), Annibale Ninchi (padre di Marcello), Riccardo Garrone (Riccardo), Lex Barker (Robert), Jacques Sernas (divo), Nadia Gray (Nadia), Valeria Ciangottini (Paola), Laura Betti (Laura), Franca Pasutt (ragazza coperta di piume), Renée Longarini (moglie di Steiner), Walter Santesso (Paparazzo), Adriana Moneta (prostituta), Giulio Paradisi (secondo fotografo), Enzo Cerusico (terzo fotografo), Enzo Doria (quarto fotografo), Leonardo Botta (medico), Harriet White (Edna, segretaria di Sylvia), Carlo Di Maggio (Totò Scalise, produttore), Sandy von Norman (interprete della conferenza stampa), Adriano Celentano (cantante di rock ‘n roll), Gio Staiano (giovane effeminato), Archie Savage (ballerino nero); Prod.: Giuseppe Amato, Angelo Rizzoli per Riama/Pathè; Pri. pro.: 5 febbraio 1960
DCP. D.: 174′. Bn
Scheda Film
Reduce dai successi e dai riconoscimenti dei suoi primi sette film, Fellini a trentanove anni, gioca la carta più rischiosa della sua carriera, decide di non raccontare più storie ambientate in un paese appena uscito dalla guerra, ma di osservare il paese nuovo, che sta vivendo il boom e attraversando un’epoca di profonda trasformazione. Lo fa in modo clamoroso, con un film inimitabile – di inusuale lunghezza rispetto ai film italiani del periodo – usando, per la prima volta il cinemascope, scegliendo attori, per lui, tutti nuovi, sbriciolando ogni regola del racconto. “Dobbiamo fare una scultura picassiana, romperla a pezzi e ricomporla a nostro capriccio” dirà, programmaticamente, a Tullio Pinelli e Ennio Flaiano, i suoi sceneggiatori. Il tentativo è così imponente, innovativo e rischioso che lo adottano e poi lo abbandonano una girandola di produttori, tra i quali due fuoriclasse che già avevano lavorato con lui, Dino De Laurentiis e Goffredo Lombardo. Alla fine sarà un maturo e abile produttore a non avere paura, Giuseppe Amato, con l’appoggio e la forza finanziaria di Angelo Rizzoli. Il primo ciak viene battuto il 16 marzo ’59, l’ultimo in agosto: cinque mesi irripetibili. Fellini è così abile che trasforma le riprese in un evento mediatizzato. La dolce vita è il primo film che diventa un evento molto prima di essere un film. Il set è frequentato da tutta Roma, che si mette in fila, per vedere come sarà rappresentata.
È l’Italia che si appresta a celebrare con le Olimpiadi di Roma un’epoca nuova. (…) Il film racconta quest’atmosfera, con un cast stellare e una delle protagoniste delle notti romane, Anita Ekberg, Miss Svezia nel 1950, regina delle copertine dei rotocalchi di mezzo mondo. Fellini si propone di realizzare la radiografia della mutazione di un’epoca. Di raccontare la vita così come la rappresentano i nuovi media e, nel costruire il racconto, si appropria, per molti episodi, degli scoop dei fotoreporter. L’episodio di Anita nella fontana era stato fotografato da Pierluigi Praturlon nel ’58, mentre Tazio Secchiaroli, il re dei fotoreporters di Via Veneto, sempre nel ’58, aveva fotografato lo spogliarello di Aiché Nanà in un locale notturno alla moda, molto frequentato dalla Roma bene. Ma anche l’episodio della scazzottata in via Veneto e dei due bambini che sostengono di aver visto la Madonna, erano stati celebri servizi fotografici. La dolce vita è, programmaticamente, una lettura esatta della mediatizzazione dell’Italia, quasi un saggio sulla manipolazione dell’informazione e dell’immagine. (…) È un viaggio attraverso il disgusto. A introdurci in questo mondo nuovo, invaso dal consumo, dal culto dello scandalo, da una religiosità isterica e in malafede, popolato da una nobiltà esausta, da una borghesia cinica e corrotta, da intellettuali che ascoltano, in salotto, i suoni registrati della natura, è Marcello Rubini, cronista mondano che scrive per un rotocalco “semifascista” (dirà Steiner), ben inserito in Vaticano e nei luoghi giusti. Un po’ ripugnato da quel mondo, ma molto lusingato, blandito, affascinato. Forse vorrebbe esserne un testimone, ne è invece un complice. La faccia leale di Mastroianni ci fa accettare la sua meschina passività, al limite della cialtroneria, e ci illude che, nonostante tutto, la vita possa avere una sua profonda dolcezza. I personaggi del film, pur immersi in un perenne movimento, sono immobili, tranne Steiner, il ‘maestro’, predicatore ed enigmatico, che sceglie la morte, per sé e per i suoi figli. (…) Forse l’unico personaggio positivo del film è proprio Sylvia, con la sua animalesca incoscienza, il suo indifeso candore, che la fa ululare, beata, nella notte. Dell’incontro con Anita, Fellini scriverà “quel senso di meraviglia, di stupore rapito, di incredulità che si prova davanti alle creature eccezionali come la giraffa, l’elefante, il baobab lo provai anni dopo quando nel giardino dell’Hotel de la Ville la vidi avanzare… Sostengo che la Ekberg, oltretutto, è fosforescente.” Nel film tutto è fosforescente. Tutto luccica, specchi, occhiali, macchine, superfici riflettenti, il ballerino coperto di foglie d’oro. Tutto è prezioso, patinato e fluido, il fantasmagorico e bruciante mondo animato da mille personaggi, la continuità dei movimenti di macchina e di quelli interni alle inquadrature. Via Veneto ricostruita da Piero Gherardi a Cinecittà, identica alla realtà, ma in piano, senza salita! La fotografia ultradefinita di Otello Martelli, la musica ipnotica di Nino Rota, la ricchezza del doppiaggio, della colonna sonora, con mille voci e una varietà stereofonica di rumori. La forza del film, il genio di Fellini, sta nella sua capacità di stordirci, di sorprenderci, ma anche nel tenerci per mano, nel comunicarci una sensazione confusa e voluttuosa di abbandono, un mood, che vince le asperità del contenuto. (…) La dolce vita è anche uno sberleffo all’Italia provinciale e conservatrice. Mentre il film sta per uscire, il paese si spacca in due, anatemi dai pulpiti, interpellanze in Parlamento, litigi nelle famiglie, sui giornali campagne stampa furibonde. Alla prima proiezione a Milano sputano addosso a Fellini. Altri esagitati gridano a Marcello, ‘vigliacco, vagabondo, comunista’. Ma l’attesa è talmente alta che Rizzoli e Amato decidono portare, per la prima volta, il prezzo del biglietto a Mille Lire. La folla, per paura che i prefetti sequestrino il film, sfonda le porte e inonda le sale italiane. Fellini aveva visto giusto, l’Italia voleva vedersi in quello specchio preciso e apparentemente bellissimo che, da grande illusionista, aveva creato. Il finale del film è aperto. Nella faccia angelica di Paolina può starci tutto, la malizia, ma anche il perdono. Su quella spiaggia, lasciandosi alle spalle il mostro marino che segue Fellini fin dall’infanzia e che ancora non riesce a guardare da vicino, Marcello è ebbro di storie che gli sono scorse addosso senza che abbia saputo trattenerle, forse ha voglia di addormentarsi. Fellini invece, che ha trovato, in Mastroianni il suo doppio e, in Cinecittà, una casa, sta per liberarsi di tutto questo fardello; il vero racconto, che lo occuperà per trent’anni, quello dei suoi sogni, sta per iniziare. Al mondo mediatizzato saprà opporre la libertà del suo inconscio.
(Gian Luca Farinelli)
Restaurato presso L'Immagine Ritrovata in associazione con The Film Foundation, Centro Sperimen-tale di Cinematografia-Cineteca Nazionale, Pathé, Fondation Jérôme Seydoux-Pathé, Medusa, Paramount Pictures e Cinecittà Luce. Il restauro è stato sostenuto da Gucci e The Film Foundation