KAIHEKI
Scen.: Shigeru Kuwano. Koichi Iijima (commento). F.: Kazuzo Kato. Su.: Zen’ichiro Sakurai. Mus.: Teizo Matsumura, Sei Ikeno, Taichiro Kosugi, Minoru Miki, Hajime Harada. Prod.: Iwanami. 35mm. Col.
Scheda Film
Fin dalla sequenza d’apertura, che combina riprese subacquee e aeree, questo capolavoro dedicato alla costruzione di una centrale elettrica a vapore a Kurihama (a sud di Tokyo) supera di gran lunga i limiti del film promozionale per rivelarsi una delle esperienze sensoriali più sorprendenti del cinema documentario giapponese. Contraddistinto da un atteggiamento marcatamente ambiguo verso il progresso, il film è una sinfonia di elementi – acqua, terra e aria – e un’indagine delle diverse consistenze di roccia, cemento, legno e vetro, ruggine, terra e fango. La diga del titolo protegge sì la costa da un tifone, ma il processo di costruzione comporta anche necessariamente un processo di distruzione. I bulldozer, di un giallo sgargiante quanto quello dei taxi in Dietro lo specchio di Nicholas Ray, squarciano paesaggi senza tempo; le cariche di dinamite spianano colline che potevano figurare in antiche xilografie. Perfino le mappe e le planimetrie hanno qualcosa dell’arte astratta, sensazione sottolineata dalla musica sperimentale della colonna sonora. La breve scena di una festa estiva tradizionale ha un sapore particolarmente incongruo; questo documentario di stampo fantascientifico ci ricorda che il futuro è già qui. A quanto pare, Kaiheki fu il primo film in formato panoramico di cui venne avviata la produzione in Giappone, ma il protrarsi delle riprese fece sì che non fosse il primo ad essere distribuito. Fu forse anche il primo a suggerire le ambizioni sperimentali del regista Kazuo Kuroki. Ironicamente, lo stesso Kuroki raccontò di aver ricevuto l’incarico quasi per caso: “A quei tempi, per far quadrare i conti dovevamo realizzare contemporaneamente quattro o cinque progetti a lungo termine. E siccome questo richiedeva tre anni interi rappresentava una bella grana. Alla Iwanami si chiesero chi potesse essere disposto a restare bloccato per tre anni a filmare una fabbrica. Così decisero di proporlo ai giovani a contratto, e il loro sguardo cadde su di me”. Tuttavia, nonostante questa genesi apparentemente casuale, il film dimostra superbamente l’inventiva e l’estro visivo che sarebbero fioriti in capolavori di finzione come Tobenai chinmoku (Il silenzio che non può volare, 1966). Lo studioso Takashi Kitakoji osserva che il film si allontana dalle convenzioni del cinema d’impresa dell’epoca. “Il commento non è una semplice spiegazione”, osserva, “il poeta Koichi Iijima scrisse in realtà una vera e propria sceneggiatura. Nel tentativo di Kuroki di creare un nuovo tipo di documentario e di film d’impresa, una colonna sonora con quel genere di commento assume un grande peso all’interno del film”.
Alex Jacoby e Johan Nordström