Il Giudizio Universale
Sog., Scen.: Cesare Zavattini. F.: Gábor Pogány. M.: Marisa Letti, Adriana Novelli. Scgf.: Pasquale Romano. Mus.: Alessandro Cicognini. Su.: Biagio Fiorelli, Bruno Moreal. Int.: Fernandel (il vedovo), Alberto Sordi (il trafficante di bambini), Paolo Stoppa (Giorgio), Anouk Aimée (Irene), Nino Manfredi (il cameriere), Vittorio Gassman (Cimino), Renato Rascel (Coppola), Vittorio De Sica (l’avvocato difensore), Jack Palance (Matteoni), Mike Bongiorno (se stesso), Ernest Borgnine (il ladro), Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (disoccupati). Prod.: Dino De Laurentiis per Dino De Laurentiis Cinematografica, Standard Films. Pri. pro.: 26 ottobre 1961 35mm. D.: 98′. Bn.
Scheda Film
per concessione di Filmauro
Quanto al Giudizio universale (un altro mio film infelice, che non ebbe fortuna ma che io considero fra i più belli che ho fatto), lì non eravamo nella favola ma semmai, come dire?, nella fanta-religione. Se oggi dal cielo sentissimo una voce che dicesse “Preparati, fra mezz’ora c’è il giudizio universale”, ognuno di noi correrebbe ai ripari, cioè scaricherebbe le proprie responsabilità per apparire mondo, puro, davanti al Giudizio. E se poi viene il contrordine, come racconto nel film, ognuno si ritufferebbe subito nella sua ipocrisia, nella sua cattiveria. Oggi forse quel film avrebbe successo, e lo avrebbe Umberto D. Non vorrei sembrarle troppo vanitoso, ma credo che quei due film siano usciti troppo presto. Spesso Zavattini e io abbiamo avuto il difetto di pensare certe cose troppo presto.
Vittorio De Sica, intervista di Giuliano Ferrieri, De Sica visto da De Sica, “L’Europeo”, n. 47, 21 novembre 1974
Il cinema italiano è nuovamente sulla cresta dell’onda. Ma, nell’esame della sua ennesima rinascita, non si è notato che esso, oggi, sta raccogliendo quello che con tanta pena ha mietuto tre, quattro, pure dieci anni fa. Erano soggetti, trattamenti, a volte sceneggiature completamente rifinite, che rimanevano nei cassetti degli autori. […] Fra tutti questi soggetti, rimasti per anni in cottura, uno dei più vetusti è quello che ha dato origine a Il Giudizio universale, che Vittorio De Sica sta realizzando in questi giorni a Napoli. In ogni caso è quello che ha subito, strada facendo, le più complesse mutazioni. Si può dire, anzi, che esso vive sul sacrificio, volontario o fortuito, di una serie di progetti, man mano accantonati o trasformati dall’autore, Cesare Zavattini, costante protagonista di questo romanzo a più episodi. In principio non era nemmeno un soggetto, bensì una battuta; non era il giudizio, ma il diluvio universale; cominciava alle nove del mattino, anziché alle sei del pomeriggio, come vuole l’ultima versione. Doveva essere l’apertura di un film-rivista, Basta una canzone, che Zavattini stava congegnando per Blasetti e che a un certo punto aveva coinvolto anche Flaiano e Maccari, un film fuori da ogni tradizione caratterizzato dalla particolare temperie dell’anno in cui era stato concepito: il 1945, la fine della guerra. Doveva essere un mezzo originale per giungere al redde rationem dopo un’epoca oscura, per provocare una confessione generale, un esame approfondito dei molti torti di cui ciascuno era responsabile. Ma la sostanziale ipocrisia dell’umanità non veniva sopraffatta nemmeno dalla paura del cataclisma e l’attimo di sincerità si trasformava presto in un’affannosa ricerca di alibi. Ecco: il tema degli alibi, Zavattini lo ha portato con sé per tutti gli anni successivi ed esplode oggi in una delle scene più mordenti di Il Giudizio. È l’esclamazione “Anch’io ho la mamma”, gridata da tutti gli italiani, per solidarietà verso il signor Antonio Abati, accusato di servilismo nei confronti del suo capo-ufficio, a cui fa pervenire ogni mattina un mazzolino di fiori. […] De Sica, che più volte fu sul punto di realizzarlo, sempre fu trattenuto da preventivi che non trovavano la copertura. Il Giudizio divenne in breve la favola del cinema italiano, al punto che
un bello spirito mise in giro la voce che De Sica avrebbe atteso il momento di girarlo dal vero. […] Come si configura Il Giudizio nella sua ultima versione? Dieci storie diverse s’intersecano con matematica precisione e rigida disciplina, senza mai tentare di sopravanzarsi a vicenda, né di allargare le proprie dimensioni a danno delle altre: riprese tre volte prima del giudizio, una volta durante e una volta dopo, per confluire tutte alla fine, in un ambiente unico, quello del ‘Gran Ballo Pro-Disoccupati’, quasi alla maniera dei vecchi film di René Clair.
Callisto Cosulich, Sedici anni a bagnomaria, “La fiera del cinema”, n. 4, aprile 1961