Gardiens De Phare

Jean Grémillon

Sog.: dall’opera teatrale omonima di Paul Autier e Paul Cloquemin. Scen.: Jacques Feyder. F.: Georges Périnal. Mo.: Jean Grémillon. Scgf.: André Barsacq. Int.: Paul Fromet (Bréhan padre), Geymond Vital (Yvon Bréhan), Génica Athanasiou (Marie), Gabrielle Fontan (la madre di Marie). Prod.: Société des Films du Grand Guignol. Pri. pro.: 25 settembre 1929 35mm. L.: 1636 m. D.: 72’ a 20 f/s. Col.

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

Gardiens de phare è in origine la versione filmica di una pièce di successo di Autier e Cloquemin, appartenente al repertorio del Grand Guignol. Albert Décamps ricorda in apertura della sua rimarchevole analisi la professione di fede di Jacques Feyder che ne scriverà la sceneggiatura e l’adattamento: “Lo schermo che reclama delle immagini e non delle parole può esigere una rielaborazione totale del soggetto, può imporre all’adattatore la necessità di creare delle immagini che in apparenza sono molto lontane da quelle che, in una forma letteraria, si trovano nel libro o nella pièce… Il dinamismo straordinario del cinema, la sua estrema mobilità nel tempo e nello spazio autorizzano anche il cineasta a modificare l’ordine del movimento e dell’azione… Tutto gli è permesso dacché è in gioco la perfezione visiva della sua opera. Il cineasta che traduce visivamente un’opera letteraria non ha che uno scopo, fare del cinema, fare un film. Deve rifiutare ogni altra considerazione: il contrario è una confessione d’impotenza da parte sua”. Nella fattispecie, si vede subito che il cinema ha potuto farci vedere quello che non è raccontato nella pièce, ma l’essenziale, per i nostri occhi, è che il dramma sia fortemente calato in un quadro marino. La sorte dei personaggi qui – come più tardi in Lumière d’été – sembra iscritta nel paesaggio. Dall’inizio il mare, le dune, il faro impongono una presenza magica che fa del luogo una sorta di trappola. Questi connotati visivi sono al centro del film e gli altri – in particolare la luce riflessa sulle lame di vetro della lanterna del faro – hanno senso estetico e drammatico proprio perché legati alla scenografia. Il mare, il faro definiscono spazialmente e moralmente una solitudine ed è l’espressione iniziale e costantemente rinnovata della solitudine che crea il tragico, come sottolinea Albert Décamps: “Ciò che ci sconvolge, che ci colpisce al più profondo di noi stessi, è innanzitutto la solitudine di due uomini, e la loro impotenza che deriva da questa solitudine. Quale che sia la definizione che si attribuisce alla situazione in cui si trovano, che si invochi il destino, la fatalità, un concorso di circostanze, una volontà malefica ostinata a perderli, il dramma che vivono nasce dal loro isolamento. Ciò che è tragico, non è che il figlio sia stato morso da un cane rabbioso, è che essendo stato morso, si trovi in condizioni tali da essere privato di qualsiasi soccorso. Non può comunicare con la terraferma, e anche se potesse, la tempesta impedirebbe che si possa soccorrerlo. È tragica la sua presa di coscienza del male che lo divora e gli sforzi impotenti che tenta per dominarsi”.
(Henri Agel, Jean Grémillon, Lherminier, Paris 1984)

 

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