CARNEVALESCA

Amleto Palermi

S.: Lucio D’Ambra. F.: Giovanni Grimaldi. In.: Lyda Borelli, Livio Pavanelli, Renato Visca.
P.: Cines, Roma. Lunghezza originale: 1755 m. Lunghezza della copia restaurata: 1500m.

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

“(…) Fassini mi mandò a chiamare: – Venga alla Cines a far colazione con la Borelli e con me… La Borelli, alla Cines, ci abitava. Ché quando tra un periodo e l’altro della sua vita d’attrice di prosa dava alcune settimane alla cinematografia, il barone Fassini non voleva che di quel poco tempo si perdesse neppure la mezz’ora necessaria per condurre in vettura l’illustre attrice da casa sua al teatro. Le allestivano dunque lassù, nella palazzina centrale della Cines, un appartamento e Lyda Borelli non aveva, uscendo dal letto, che da far le scale per essere, nella sua imperiale bellezza bionda, davanti alla macchina da presa. E lì Alberto Fassini veniva ogni tanto a vigilare il lavoro, chiuso nei suoi maglioni di grossa lana, col suo passo napoleonico da imperatore della cinematografia, infallibile nella cortesia ma secco e rapido nei comandi in quell’abitudine di sbrigativa autorità che gli veniva dalle navi da guerra su cui aveva trascorso, brillante ufficiale di marina, gli anni della prima giovinezza. Allora era nella seconda giovinezza, come adesso è nella terza; ché Alberto Fassini ha sempre una giovinezza di ricambio per essere eternamente giovane. Uomo intelligente e geniale, di larghe vedute, di molteplici esperienze, il barone Fassini voleva conferire alla produzione della Cines un prestigio superiore a quello di qualunque altro film. Uomo di gusto, di coltura, di largo senso artistico, non seguiva, da industriale remissivo, i suoi vari registi. Ma tutti invece li dominava e, come su gli antichi suoi bastimenti, li chiamava volentieri a rapporto. C’era in lui il desiderio di elevare il tono della cinematografia e di portarla ad autentica manifestazione d’arte. Così una mattina, avutomi alla sua tavola accanto a Lyda Borelli, comandò secco e breve col tono dell’ammiraglio che parli all’ufficiale di guardia chiedendogli una lancia a mare: ‘In dieci giorni un film vostro per Lyda Borelli, vasto, artistico, grandioso, degno di lei e dell’arte sua…’.
Scrissi Carnevalesca: un ardito tentativo di film simbolico ed allegorico suddiviso in tre tempi e commenti: un ‘carnevale bianco’ che era il mondo della felice adolescenza nei giovani principi d’una grande Corte imperiale; un ‘carnevale rosso’ che, nel cieco e ardente furore della vita, insanguinava tra passione e delitto quelle prime innocenze; e un ‘carnevale nero’ ch’era il poema visivo della vecchiaia e, in un mondo di neri fantasmi, radunava attorno ai superstiti le oscure ombre d’un tragico passato. Occorrevano al film, negli episodi visivi e corali dei tre pittoreschi carnevali, larghi commenti musicali ed una specie di sinfonia dei suoni che accompagnasse la sinfonia dei colori. Si pensò a Mascagni, si pensò a Zandonai: impegnati l’uno e l’altro in opere nuove. E il film, al quale la musica, la grande musica, era indispensabile, rimase senza uno dei suoi principali elementi, affidando il sostrato lirico della composizione visiva solo ai commenti rabberciati delle orchestrine dei cinema cucendo insieme vecchi motivi verdiani e valzer viennesi:
Amleto Palermi inscenò Carnevalesca. Lyda Borelli ne fu stupenda interprete in un imponente gruppo d’attori tra i quali, tentato momentaneamente dalla cinematografia, era anche un fine poeta veneziano, allora giovane e più tardi affermatosi giornalista di razza e solido scrittore politico, Gino Cucchetti. L’opera cinematografica ebbe questo particolare risultato: che dieci compositori di musica videro, in Carnevalesca senza musica, la possibilità di una grande opera lirica. Primo a scrivermi fu Giacomo Puccini. Ritrovo la sua lettera, da Milano: – Ho ammirato iersera Carnevalesca. La gente, che al cinema, non applaude mai, iersera, me presente, ha battuto le mani. Che operone ci sarebbe là dentro! Vogliamo parlarne? Sarò a Roma la settimana ventura -. Se ne parlò, con Puccini sempre indeciso, senza concludere nulla. E altri, dopo Puccini, pensarono all’opera. Due o tre librettisti addirittura elaborarono schemi di libretto. Troppi galli a cantare!… Il giorno non venne. E l’opera lirica è ancora da farsi, mentre Carnevalesca, nel cimitero senza croci delle pellicole, nella fossa comune della vecchia cinematografia, è sepolta e dimenticata, senza un fiore, senza una lacrima…
(Lucio d’Ambra, Sette anni di cinema, ripubblicati da Giovanni Grazzini in Gli anni della feluca, Lucarini, 1989)
“Ancora nel 1937, Lucio d’Ambra scrive nelle sue memorie: …Carnevalesca, nel cimitero senza croci delle pellicole, nella fossa comune della vecchia cinematografia, è sepolta e dimenticata, senza un fiore, senza una lacrima… Di fronte a questa fossa illacrimata, la pietà s’impone; poi la fortuna soccorre la pietas e il film viene ritrovato (disseppelito) – dalla Cineteca di Bologna. Si tratta di una copia originale, pressocché integra, proveniente dall’archivio Sodre di Montevideo, con didascalie in spagnolo (tradotte in italiano, in occasione del restauro) e colorata: soprattutto colorata. (Un breve frammento del terzo rullo viene in seguito rinvenuto in Italia).
Lucio d’Ambra scrive il film, in una decina di giorni, nell’estate 1917, su commissione di Alberto Fassini. La Cines seguita in una politica – che gli economisti chiamerebbero – di ‘differenziazione del prodotto’: film esteticamente qualificati, referenziati dalla ‘tête d’affiche’. Autore: Lucio d’Ambra; interpreti: Lyda Borelli ed Enrico di Roma (questo, poi, sostituito con Livio Pavanelli); inscenatore: Amleto Palermi. Inoltre, come già per Rapsodia satanica di Nino Oxilia, si vorrebbe una partitura musicale di Pietro Mascagni (o almeno del maestro Zandonai…) Eppure Carnevalesca, questo ‘film artistico’ per premeditazione, mostra una ricerca di corrispondenza – che sfiora la sinestesia – tra dramma e colori (e musica?), tale da poterlo collocare tra i tentativi di ‘opera totale’, se non proprio sintetica o, per altri versi, lungo la linea inaugurata dai primi esperimenti di Ginna e Corra (1909), insomma una ‘sinfonia poliespressiva’ (secondo i voti del Manifesto della cinematografia futurista, 1916) a misura Cines. Ad ogni modo, il barone Fassini fa le cose in grande e, dunque, si richiede a Lucio d’Ambra la ‘maniera grande’, cioè una tragedia. L’azione si svolge nell’improbabile, e bellissimo, castello del regno di ‘Malesia’. Qui vive una corte composta da un vecchio re, dai suoi due figli Luciano e Maria Teresa (Lyda Borelli), e da tutta una infilata di principi e principini, (persino neonati, in culle disposte in un ordine geometrico molto d’Ambra touch) nonché ridicoli tutori e ottusi marescialli. – Questo regno da operetta, perfetto materiale da commedia, d’Ambra lo prende sul serio e lo precipita in eventi fatali. – Il re è vecchio, e l’erede al trono è innamorato di Tea (probabilmente non aristocratica), dalla quale aspetta un figlio; così Luciano rinuncia ai suoi diritti di primogenitura e fugge con lei. Chi erediterà il trono? Si scatenano le ambizioni, si ordiscono i complotti. Il vecchio re è indeciso, ma infine si risolve per Maria Teresa, promessa al principe Pietro. Il re viene assassinato. La colpa è fatta ricadere su Pietro. Anche Maria Teresa lo crede colpevole e lo uccide la sera stessa delle nozze. Poi, scopre l’innocenza dell’amato Pietro e, ormai folle, ‘fugge… fugge’ nella notte.
Carnevalesca si apre con una presentazione dei personaggi principali dentro l’affollato tumulto del carnevale. Lo spazio del castello è articolato (esterni/interni, piani superiori/inferiori) e padroneggiato da un complesso montaggio a incastro. L’unità di luogo consente una certezza spaziale rispetto ai rovesci della vicenda, ma trattiene anche una serie multipla e successiva di scene secondarie, transiti narrativi, notazioni, ora ironiche ora solenni. Tra le fastose sale, il bel giardino-dedalo, la dolce riva del lago e un campo da tennis, si muove Lyda Borelli; se è primavera, cita Botticelli. Tuttavia, a lungo meno che comprimaria, solo i primi piani rendono auratica la sua presenza. Via via che il dramma avanza, lo spazio si semplifica e si stringe intorno a lei, il tempo si dilata e punta al culmine: è qui che il corpo di Lyda si riprende la scena, il suo diritto isterico di diva – per confondersi, infine, tra gli alberi viola, in lontananza.
Il film si avvia con una gioiosa festa di carnevale (bianco) che ritornerà greve ‘qualche anno dopo’ (didascalia) come doppio e irrimediabile contrasto (carnevale rosso). Solo metaforici sono invece gli altri carnevali (secondo l’idea di mascherata esistenziale, ‘carnevale della vita’). Carnevalesca, dunque, è suddiviso in tre carnevali, ricorda d’Ambra; ne menziona quattro invece una presentazione pubblicitaria d’epoca (cfr. V. Martinelli, Il cinema muto italiano. 1918). Ciascun carnevale simboleggia e marca una diversa sezione drammatica della vicenda. Inoltre, se in ragione di quattro, i carnevali perfezionano l’allegoria, coincidendo col novero delle stagioni e la tradizionale ripartizione dell’età dell’uomo (tutt’e quattro, peraltro incarnate nei personaggi del film). C’è il carnevale bianco: l’infanzia gaia e spensierata; il segmento (carnevale) azzurro: la giovinezza, l’amore; il carnevale rosso: le passioni violente (l’ambizione); il carnevale nero: la morte e la follia. Ad ogni carnevale, o comunque a ogni sequenza conchiusa, corrisponde una diversa tinta dominante (imbibizione). Pure, il carnevale bianco non è di colore bianco, ma rosa, mentre il carnevale nero è viola (niente b/n.). La correlazione colore/scena richiama le soluzioni cromatiche del teatro simbolista. Ricordiamo, per esempio, la pièce di Marcel L’Herbier L’Enfantement du mort (pubblicata nell’aprile 1917 e allestita da Art et Action l’11 aprile 1919) si presenta come: Miracle en pourpre, noir et or. Così, Lucio d’Ambra, questo giornalista romanziere e autore di commedie brillanti, che si farà una fama – due passi avanti – di ‘precursore di Lubitsch’, qui si spinge – un passo indietro – verso il Sublime, e con le idee troppo chiare, verso Maeterlinck. Certi intimi di Lucio d’Ambra (Washington Borg, Gaetano Campanile-Manvini e Ugo Ugoletti) prendono visione della sceneggiatura di Carnevalesca prima della realizzazione del film: ‘Ciò che Maeterlinck ha tentato raggiungere nel teatro, Lucio d’Ambra, in Carnevalesca, è riuscito a portare al cinematografo: il fato cieco e inesorabile che sovrasta il mistero del nostro spirito, la vita umana retta da forze ignote, simbolo di una realtà nascosta. E se il grande poeta de L’Interieur, di Pelléas et Mélisande, de L’Intruse, de Les Aveugles ha potuto plasmare le sue creature di sogno con la sublime armonia della parola, Lucio d’Ambra ha saputo scolpire vigorosamente i simboli della sua tragedia in una mirabile euritmia visiva, in una stupenda polifonia di scene e di quadri’. (U. Ugoletti, “Carnevalesca“di Lucio d’Ambra, Roma, La Cine-Gazzetta, n. 41, 26 luglio 1917, p. 3) (Michele Canosa)
“Carnevalesca, infatti, è punteggiata di simboli, certi sono inclusi nello svolgimento scenico (le lucciole: ‘fulgore dell’illusione’, dice una didascalia), altri sono piuttosto delle inquadrature-emblema (racchiuso in un tondo, si muove un polipo: didascalia: ‘… la piovra dell’ambizione’). Una trovata meno elementare è quest’altro iconogramma reiterato: un braccio nudo elegante ignoto, e nella mano, un prisma. Ad ogni passaggio da un carnevale all’altro, ad ogni rifrazione della sorte, – dissolvenza: – appare questa mano che muove il prisma; – dissolvenza: – il colore della sequenza successiva è cambiato.
‘Una mano che non ci appartiene bussa a tratti alle porte segrete dell’istinto – si potrebbe dire alle porte del destino -, aprirle non ci è possibile, ma dobbiamo ascoltare con attenzione’”.
(Maeterlinck, Menus propos. Le Théâtre, La Jeune Belgique, n. 9. 1890).

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