Bonjour Tristesse
T. it.: Buongiorno tristezza!. Sog.: dal romanzo omonimo di Françoise Sagan. Scen.: Arthur Laurents. F: Georges Périnal. Mo.: Helga Cranston. Scgf.: Raymond Simm. Su.: David Hildyard, Red Law. Mu.: Georges Auric. Int.: Deborah Kerr (Anne Larson), David Niven (Raymond), Jean Seberg (Cecile), Mylène Demongeot (Elsa), Geoffrey Home (Philippe), Juliette Gréco (se stessa), Walter Chiari (Pablo), Martita Hunt (la madre di Philippe), Roland Culver (Mr Lombard), Jean Kent (Mrs Helen Lombard), David Oxley (Jacques), Elga Andersen (Denise), Jeremy Burnham (Hubert). Prod: Wheel Productions. Pri. pro.: 7 marzo 1958 DCP. D.: 94’. Bn e Col.
Scheda Film
Parigi è una nuvola di malinconia, una corsa in spider lungo i giardini del Luxembourg verso un’alba grigia (buongiorno tristezza), lo smoking appena stropicciato di un maturo viveur, un vestitino a corolla color ala di corvo che reca memorie di Sabrina e Givenchy. Poi un mare scintillante e azzurro comincia a invadere l’inquadratura, obliquamente, dall’alto a destra, e ora sappiamo che se Parigi è in bianco e nero non è solo per naturale fotogenia (fissata nel mito da Atget a Cartier-Bresson, da Lumière a Godard: e nessuna città è stata mai corrotta dal colore quanto Parigi), ma perché sulle vite di questi “parigini dissoluti”, di questo tenero festoso Edipo messo in scena ogni sera da un uomo amabile e fatuo e dalla figlia diciottenne, pesa l’ombra di quel che accadde l’anno scorso, in Riviera. Quel che accadde può chiamarsi perdita dell’innocenza, e per Preminger l’innocenza ha un colore, meglio, un timbro, e quel timbro è blu. “Il colore timbrico non è in tutto equivalente a quello che altri chiama il colore puro, per quanto ne abbia in comune alcune caratteristiche: quella innanzitutto di non soggiacere ad altri colori del quadro, di affermarsi come un’entità a sé stante con leggi proprie, indipendente da qualsiasi altra soggezione tonale […]. Questo colore, che possiamo vedere in Matisse, in Miró, in Léger, in Kandinsky, ha una precisa volontà di squillare in maniera autoritaria ed egocentrica, considerando la sua propria essenza come qualcosa di valido in se stesso, per la sua particolare natura cromatica” (Gillo Dorfles, 1952). Il timbro s’affaccia già nei titoli di testa del grande astrattista Saul Bass, è una lacrima blu sul tracciato geometrico d’un viso, e squilla poi nel blu del mare, nell’azzurro del cielo, nel celeste slavato di identiche camicie di denim allacciate con spensierata indolenza, in un costume da bagno, in una cappa di spugna, nel ceruleo degli occhi di una ragazza/ninfa che rifiuta, fino alla tragedia, di uscire dal suo Eden. Preminger, che nella vita pratica l’arte contemporanea da studioso e da collezionista, dirige il suo policromo film blu con competenza sbalorditiva, con risultato commovente, giocando di contrappunto (‘timbro’, d’altra parte, è termine desunto dal linguaggio musicale): nastri rossi su cappelli di paglia, pelle scottata, verde balsamico dei pini. E sfondi improvvisi, questi sì puri, una densità fauve che muove verso l’astratto, su cui stagliare quel viso e quella nuca, così fragili e moderni. Di Jean Seberg, stella luminosa e presto cadente, nessuno ha saputo cogliere l’incanto quanto Otto Preminger, nemmeno il venerato maestro della nouvelle vague. L’aveva scoperta lui l’anno prima, era stata Giovanna d’Arco (da G.B. Shaw) nel più sfortunato dei suoi film, l’aveva già sottoposta al dolce supplizio dei primi piani. Qualcosa di quel supplizio ritorna nell’immagine finale di Bonjour Tristesse, bambina con il viso sporco non di terra ma di cold cream; e quel viso finalmente si riga di lacrime. Bonjour Tristesse è un capolavoro che reca qualche umano acciacco, qualcosa di un poco invecchiato, qualcosa di teneramente ai bordi del ridicolo, a cominciare dalla pur struggente Juliette Gréco. Ma sono quisquilie. La sapienza drammaturgica dei movimenti tra passato e presente, una specialità del grande Arthur Laurents (Come eravamo) – movimenti che, pazienza!, non piacquero a Françoise Sagan, autrice del breve folgorante romanzo uscito nel 1954 -, la padronanza compositiva del Cinemascope, lo splendore cromatico ne fanno un’opera d’arte nel senso più delicato e tecnico del termine, con cui è giusto che il restauro continui a confrontarsi.
(Paola Cristalli)