BALLERINE
Sog.: dal romanzo Fanny ballerina della Scala (1933) di Giuseppe Adami; Scen.: Albrecht Joseph, Rudolf Joseph, Leo Bomba; F.: Václav Vích; Op.: Giuseppe La Torre; Scgf.: Virgilio Marchi, Enrico Verdozzi, Nino Maccarones; Co.: John Guida; Coreogr.: Sartorio; Mo.: Vincenzo Sorelli; Mu.: Annibale Bizzelli; Canzone Il mio paradiso di Carlo Innocenzi; Su.: Boris Muller, Paolo Uccello; Ass. regia.: Mario Monicelli, Alberto Mondadori; Int.: Silvana Jachino (Fanny), Olivia Fried (Piera), Laura Nucci (la Sandri), Maria Denis (Gina), Maria Ray (signora Alexa), Livio Pavanelli (industriale Micropoulos), Antonio Centa (Mario Verandi), Carlo Fontana (Palesi), Gino Viotti (il maestro Ronchetti), Gustav Hrdlicka (il truccatore), Giorgio Bianchi (il pianista), Fausto Guerzoni (Prandi), Nicola Maldacea (l’agente teatrale), Nino Marchetti (il direttore di scena), Mussia Andreis, Marianna Bardas, Oreste Bilancia, Gianni Biraghi, Gemma Bolognesi, Franca Brunori, Marisa Cabrini, Vittorio Capanni, Dada Castana, Maria Cecconi, Mary Cipriani, Mimma Cipriani, Liza Czobel, Jacqueline De Grad; Prod.: Associati Produttori Indipendenti Film (API)/Anonima Film In-ternazionali; Pri. pro.: agosto 1936
35 mm. D. 69′. Bn
Scheda Film
Mi esaltò il fatto che fui inviato a fare il “ciacchista”, cioè l’ultimo degli assistenti, in un film di Gustav Machatý. Machatý era un regista cecoslovacco che l’anno prima aveva vinto la Mostra di Venezia con il famosissimo Estasi. Famosissimo in realtà perché per la prima volta nella storia mostrava una donna nuda che andava in giro per i boschi, Hedy Lamarr.
Entrare a collaborare con Machatý, sia pure in un ruolo così minore, mi sembrava chissacché. Infatti ebbi un’esperienza veramente indimenticabile. Fu a Tirrenia, ove si volevano potenziare gli stabilmenti cinematografici di Giovacchino Forzano. Machatý si comportava come io credevo fosse giusto comportarsi, come il mio mo-dello, cioè come un pazzo!
Veniva vestito in modi strani; mi figuravo che fosse Sternberg, un mitteleuropeo come lui. Gridava, urlava, strillava, d’improvviso veniva colto da crisi, per cui bisognava spegnere tutte le luci e si piombava nel buio più assoluto: si girava tutto in in-terno, perché allora non esistevano esterni. Tutta la troupe, quaranta-cinquanta persone che erano, piombava nel buio, tutti zitti in punta di piedi, non si poteva parlare; e lui si metteva su una poltrona, sollevava i piedi da terra e si concentrava, mentre noi aspettavamo questo “parto”. Si riprendeva a lavorare quando lui era ispirato. La mattina in genere non si realizzava niente: lui trafficava, telefonava, si chiudeva in camerino, brontolava, oppure stava zitto, si distraeva… Insomma, prima che cominciasse a carburare passavano ore e ore. Il film non finiva mai. Quell’una o due inquadrature che si giravano al giorno avevano una tale elaborazione che io pensavo di partecipare ad un evento immortale. Il film si intitolava Ballerine e, quando lo vidi poi al cinema, mi accorsi che era invece una stupidaggine senza precedenti. Di notevole da ricordare in Ballerine ci fu il debutto di Antonio Centa, un giovane appena tornato dall’America ove era andato per fare il muratore. Siccome era nato vicino a Sequals, ad un certo punto era stato messo a fianco di Carnera: nel giro di mafia e gangster di cui era attorniato Car-nera lui gli faceva un po’ da dama di compagnia e un po’ da sorvegliante. (…) Le mie prime esperienze sono passate da un estremo all’altro: da una specie di piccolo Sternberg folle, a un mestierante come Genina che aveva alle spalle decine di film di successo, che aveva lavorato all’UFA e in Francia, con i divi, e che io disprezzavo molto. Ricordo che per me lui girava il film [Squadrone bianco] in una maniera cialtronesca. Poi quando Ballerine e Squadrone bianco uscirono, li andai a vedere e mi accorsi che il primo era una cosa velleitaria e scombinata, l’altro invece possedeva una sua sostanza anche estetica.
(Mario Monicelli, L’arte della commedia, a cura di Lorenzo Codelli, Dedalo, Bari 1986)