Lezione di Cinema: Bernardo Bertolucci – Io e Marlon Brando
L’incontro con uno dei più importanti registi del ‘900, Bernardo Bertolucci, avvenuto ieri al Cinema Ritrovato, è stato un’occasione unica per conoscere i retroscena del suo rapporto con Marlon Brando, narrati con una grazia e un’intelligenza non comuni dalla sua voce profonda con l’inconfondibile accento di Parma.
Come spesso accade nel cinema, dove attori che paiono perfetti in un determinato ruolo l’hanno in realtà ottenuto in maniera piuttosto casuale, il divo di Fronte del porto non fu la prima scelta di Bertolucci per Ultimo tango a Parigi. Inizialmente il regista contattò Jean-Louis Trintignant con cui aveva da poco lavorato in Il conformista, ma l’attore, pur con dispiacere, si trovò a rifiutare per la presenza delle troppe scene esplicite che costituivano per lui un limite insormontabile. Anche per il ruolo femminile l’autore pensò prima a Dominique Sanda, che dovette rifiutare perché era incinta aprendo così le porte a Maria Schneider.
La sceneggiatura del film – sviluppatasi da un soggetto di Bertolucci che era “la storia di un uomo e di una donna che s’incontravano in un appartamento per fare l’amore, solo per quello, e che aveva il titolo di Un giorno e una notte, e un giorno e una notte – ebbe diverse riscritture (una anche con il compianto fratello Giuseppe) prima di prendere una forma definitiva con l’apporto del montatore Franco “Kim” Arcalli.
Data l’ambientazione parigina della storia, Bertolucci, dopo Trintignant, decise di incontrarsi con i due più importanti attori francesi del momento, Jean-Paul Belmondo e Alain Delon. Si recò allora con uno script ancora incompleto a Parigi, ma Belmondo (il protagonista di À bout de souffle il film che, ricorda il regista, “ha cambiato la mia vita”) rifiutò con sdegno dicendo che lui non faceva film pornografici, mentre Delon, la terza scelta, fu d’accordo ad interpretarlo, ma solo se avesse potuto essere anche produttore. Una condizione irricevibile per Bertolucci che non voleva lasciare il controllo del film all’attore protagonista. Così, ci dice, arrivò la pazza idea (suggerita dalla Paramount che era interessata a produrre il film): offrire la parte di Paul a Marlon Brando. Il regista era incredulo, “non si può capire oggi che cosa rappresentasse un attore come Brando all’epoca, era un monumento del cinema di Hollywood, ma trasgressivo”, eppure, emozionatissimo, andò a incontrare l’attore che volle vedere con lui Il conformista, quindi accettò il ruolo in Ultimo tango a Parigi e invitò l’autore italiano per un mese a Los Angeles per parlare della sceneggiatura. La prima visita del regista nella capitale del cinema, “un immenso parcheggio del quale m’innamorai subito” ricorda con ironia, fu come ospite nella villa di Brando a Mulholland Drive, dove conobbe il suo vicino di casa Jack Nicholson e dove, curiosamente “parlammo con Marlon di tutto, tranne che del film”.
Un’ultima incertezza nella fase di pre-produzione fu il momento della discussione del cachet del divo, che fece una richiesta ragionevole, ma comunque troppo alta per la Paramount che sosteneva come ormai l’attore non fosse più sulla cresta dell’onda. Eppure, racconta Bertolucci, in quel momento Francis Ford Coppola era proprio negli studi della major per montare Il padrino – l’opera che avrebbe rilanciato Brando come stella di prima grandezza – si trattò insomma “di uno straordinario esempio di miopia” chiosa il regista premio Oscar. Fortunatamente Alberto Grimaldi, produttore di Sergio Leone e Pier Paolo Pasolini, si offrì per finanziare il film, e le riprese finalmente divennero una certezza.
Visivamente Bertolucci, con il fondamentale apporto del grande Vittorio Storaro alla fotografia, trasse ispirazione dai quadri del pittore Francis Bacon, che mostrò anche a Brando perché capisse che tipo di atmosfera voleva infondere al film.
L’esperienza del set è rievocata in una serie di ricordi che rendono bene il magnetismo che l’attore sapeva trasmettere davanti alla macchina da presa. L’approccio di Marlon al personaggio era debitore del metodo Stanislavskij e dell’esperienza all’Actor’s Studio, un metodo che non collideva con l’idea di Bertolucci per cui “l’attore non deve assomigliare al personaggio scritto nella sceneggiatura, ma deve accadere il contrario”. Molto interessante anche il modo con cui Brando studiasse le battute: spesso si trovava a riscriverle per adattarle a se stesso, le imparava e poi però tendeva a dimenticarle, tanto che sulla scena voleva il gobbo, specie per i monologhi. Come quando, nelle scene al capezzale della moglie morta, mentre si piegava piangendo su di lei coglieva con un fugace sguardo una parola sul gobbo e da quella ricostruiva il dialogo.
Bertolucci definisce invece sconvolgente l’effetto che l’attore esercitava sui colleghi, donne o uomini che fossero: un misto d’irresistibile fascino e timore. Per esempio Jean-Pierre Léaud non ebbe il coraggio di incontrarlo e Veronica Lazar (Rosa, la moglie di Paul) anni dopo ancora ricordava con un brivido il viso di Brando che le toccava il corpo immobile.
In generale il regista ricorda un’ottima collaborazione con l’attore, che organizzò anche una festa per la fine delle riprese, così come la proficua atmosfera tra tutti i membri della troupe, compreso l’autore delle musiche Gato Barbieri, sassofonista argentino che “suonava il sax tenore come fosse nero”, a cui dobbiamo quel “ultimo tango” del titolo, un omaggio di Bertolucci al compositore. Sull’importanza del suono nel cinema, Bertolucci compie una piccola (e molto condivisibile) divagazione sulla necessità di guardare i film in lingua originale, nell’augurio che l’uso del doppiaggio, di cui da sempre si abusa in Italia, venga progressivamente abbandonato e che gli esercenti abbiano il coraggio di proporre in film in v.o. per contribuire “all’educazione al suono del pubblico” (obiettivo questo al quale la programmazione della Cineteca dà, da anni, il suo significativo contributo).
Il racconto del grande Bernardo Bertolucci volge al termine rievocando, con palpabile commozione, il fratello Giuseppe, così legato a Bologna anche per il suo incarico di Presidente della Cineteca, e con tenera emozione l’indimenticabile incontro con Jean Renoir, che aveva visto e amato Il conformista e che pronuncia una frase che Bertolucci farà sua, citandola alla platea come un inno a quella straordinaria esperienza di libertà e creatività collettiva che è fare cinema: “ricordati, bisogna sempre lasciare una porta aperta sul set perché non si sa mai che cosa ci può entrare”.
Luca Giagnorio, Il Cinema Ritrovato News
Guarda il video completo della Lezione di cinema tenuta da Bernardo Bertolucci.
Qui sotto la gallery dell’evento con le foto di Lorenzo Burlando.