29/06/2016

Cinefilia Ritrovata, ‘Singin’ in the Rain’

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È sempre una grande emozione vedere Gene Kelly, Donald O’ Connor e Debbie Reynolds cantare e danzare sul grande schermo, ma Il Cinema Ritrovato l’ha amplificata permettendoci di assistere alla proiezione di una copia Technicolor del 1966 appartenente alla collezione privata di Martin Scorsese. Mai come in occasioni del genere si ha la chiara percezione che il colore non è un dettaglio trascurabile o un accessorio bensì un elemento fondamentale del film, uno strumento di espressione registica senza il quale le emozioni sarebbero trasmesse solo a metà. Prova ne sia il fatto che spesso di questi film – come scrive Gian Luca Farinelli nel catalogo del festival – “ci ricordiamo più dei dettagli cromatici che dell’esatto svolgimento della trama”. Nell’immaginario collettivo gli impermeabili gialli identificano questa pellicola tanto quanto la canzone che le dà il titolo, scritta nel 1929 dal produttore della MGM Arthur Freed e da Nacio Herb Brown. Cantando sotto la pioggia fu in realtà ideato proprio come contenitore di alcune canzoni che Freed e Brown avevano scritto negli anni trenta: durante gli anni quaranta e cinquanta Freed aveva costituito un’unità operativa all’interno della MGM con lo scopo di innovare il genere musical, che all’epoca si stava adagiando riproponendo sempre gli stessi cliché. Se pensiamo al musical Quarantaduesima strada di Lloyd Bacon (1933), la domanda/esclamazione dello spaesato Fred Astaire in Spettacolo di varietà (Vincente Minnelli, 1953) – “Ma cosa è successo alla Quarantaduesima Strada?” – si può interpretare anche in questo senso.

Cantando sotto la pioggia rientra nel suddetto processo di innovazione in cui il genere viene svecchiato attraverso una recitazione brillante, un look patinato e talora sfarzoso e numeri di canto e ballo meno stilizzati. L’uso del Technicolor completa l’opera donando ai film di questi anni quella veste di impatto che contribuirà a identificare il genere con la MGM stessa. È interessante notare come nella trama di quest’opera si riscontri un simile processo di adattamento ai nuovi tempi. La storia si colloca infatti nel momento di passaggio tra il cinema muto e quello sonoro, presentando – come accade nel meraviglioso The artist (Michel Hazanavicius, 2011) – i vari problemi che le case di produzione dovettero affrontare nell’adattarsi alle nuove tecnologie: l’uso di microfoni, le cabine per isolare le rumorose macchine da presa, le difficoltà di dizione dei molti attori che non avevano una voce “presentabile” in una pellicola sonora e così via.

Cantando sotto la pioggia è dunque anche un’opera meta-cinematografica perché, oltre a narrare il presente parlando del passato, ci mostra – attraverso il racconto di scrittura, produzione e realizzazione del film-nel-film The Dancing Cavalier – il funzionamento del cinema stesso, certamente declinato in chiave poetica e onirica.

Ma non è forse questa una caratteristica del musical come genere?

Alessandro Guatti – Associazione Culturale Leitmovie