30/06/2018

Sir Christopher Frayling: il cinema secondo Sergio Leone

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In vista della proiezione in Piazza Maggiore della versione restaurata di “C’era una volta il West”, lo scorso 26 giugno Sir Christopher Frayling, biografo e studioso di Sergio Leone, ha sostenuto una lezione di cinema sul genio del grande regista. Un’occasione per entrare nelle fibre più profonde del suo cinema e in particolare del capolavoro del 1968, “C’era una volta il West”. Un racconto appassionato dell’amore del regista per la settima arte e di un approccio intellettuale al genere western. 

Ad introdurre la lezione di Frayling il Direttore della Cineteca di Bologna Gian Luca Farinelli: “I suoi libri sono un’esperienza di vita. Sir Christopher Frayling è uno dei pochi grandi studiosi di cinema al mondo, ha molti meriti ma il più grande è sicuramente quello di aver capito la straordinaria importanza di Sergio Leone, quando la critica mondiale e soprattutto quella italiana pensava che fosse un cineasta di serie B. Frailing è uno dei primi ad aver capito che non c’erano da un lato gli autori e dall’altro i registi di genere, ma che c’era il cinema e come tale andava studiato. Sono veramente grato per quello che ha scritto e per essere con noi in questa straordinaria giornata dedicata al genio di Sergio Leone. In Cineteca stiamo lavorando molto su Sergio Leone e assieme alla Cinematéque Francaise, apriremo a inizio ottobre a Parigi una grande mostra dedicata al regista”.  

Sir Christopher Frayling: “Ho curato una mostra su Sergio Leone al Museo del Cinema di Torino, nel 2004: in occasione della mostra ci fu un seminario, durante il quale una persona del pubblico mi chiese: ‘Mi potrebbe spiegare come mai in un museo nazionale di cinema in Italia avete organizzato una mostra su un regista che faceva film americani e sopratutto in che modo pensa che i suoi film siano autobiografici?’ –  Io risposi: ‘Innanzitutto non accetto la distinzione tra i film di genere e i film d’autore: credo che molti dei nostri registi preferiti, come John Ford o Howard Hawks abbiano fatto film di genere che erano anche film d’autore. Credo che i film di Leone siano autobiografici per quattro ragioni: per prima cosa ‘C’era una volta il West’ è il riflesso autobiografico di un giovane ragazzo che è cresciuto in Trastevere fino ai vent’anni che ha visto tantissimi film hollywoodiani degli anni ’30  e dai quali è rimasto fortemente influenzato a livello visivo. Da un lato Leone amava il cinema americano, in particolare i film western e gangster, dall’altro disprezzava quello che successe a quel genere di film a partire dal dopoguerra, in particolare quando tutti scoprirono Freud e i personaggi divennero dei problemi da psicanalizzare. Una volta Leone mi disse: “Se Billy The Kid avesse avuto a disposizione un analista, il suo personaggio non sarebbe mai potuto esistere”. In particolare nel ’45 e nel ’46 ebbe modo di vedere un’enorme lista di tutti quei film americani che non erano arrivati in Italia durante la guerra: una grande indigestione di cinema americano che lui amò moltissimo; dunque si può affermare che il primo livello autobiografico è quello di un fruitore di cinema. Un altro aspetto è la sua autobiografia da filmmaker. Sergio iniziò come assistente di regia a partire dai primi anni ’50, ma prima ancora fece la comparsa in “Ladri di Biciclette”, nel ruolo di un seminarista. Le prime esperienze nel cinema, negli anni ’50, furono con registi italiani: Camerini fu il suo padrino, Mario Bonnard fu il suo mentore, Aldo Fabrizi un caro amico per tutta la vita. Quella rete di relazioni con registi italiani esperti rappresentò la sua formazione.
Sergio ha fatto esperienza da aiuto regista con 12 registi italiani, ma ebbe anche esperienze con delle troupe americane che giravano a Roma (“Quo Vadis?”, “Elena di Troia”, “Ben Hur”, “Storia di una monaca” e “Sodoma e Gomorra”). Nella sua formazione troviamo diverse esperienze nel cinema d’azione, insieme ad esperienze con gli autori della Commedia all’italiana. Il terzo focus è sul contributo personale che lui stesso ha apportato ai generi a cui ha lavorato– gangster o western – facendoli suoi: Leone ha uno stile molto marcato, i suoi film non potrebbero essere di nessun altro. Possiamo dire la stessa cosa dei film western di Corbucci, Lizzani… Hanno tutti uno stile molto definito: già dai primi dieci minuti si può intuire chi è l’autore e anche in questo aspetto si può rintracciare una componente autobiografica, autoriale. Infine nei film di Leone incorriamo in molti elementi autobiografici in senso stretto: ad esempio nel ’43 Leone era a Napoli con il padre, al tempo una città poverissima. Un giorno, viaggiando insieme al padre su una carrozza trainata da un cavallo di estrema magrezza, alla richiesta del padre di andare più veloce il conducente rispose: ‘Non posso, il cavallo al momento si alimenta di sola acqua.’  – questa è una battuta che ritroviamo in ‘C’era una volta il West’, nel personaggio di Sam: è un ricordo del viaggio a Napoli negli anni ’40.
La gente alla mostra chiese: ‘Perché non Antonioni o Zeffirelli, perché non qualcuno di tipicamente italiano? […] I registi italiani dovrebbero fare film sull’Italia e li devono girare per le strade italiane!’  – Questo perché subivano l’eredità neorealista che credevano rappresentasse la vera essenza del cinema italiano. Ma io sono fortemente contrario. Credo che esista una specificità italiana tanto rispetto ai film di genere quanto ai film d’autore. Nel ’69 scrissi una lettera all’ambasciata italiana chiedendo una sponsorizzazione per realizzare una rassegna su Sergio Leone al National Film Theater di Londra e la risposta fu: “Crede davvero che questi film facciano una buona pubblicità alla cultura italiana? Perché non Antonioni, Pasolini?” E non misero a disposizione alcun tipo di budget.
Le recensioni dei film di Leone sulla stampa italiana, e per certi versi quella americana e inglese del tempo, furono pessime: i suoi film non vennero mai presi sul serio. C’è una storica intervista della Rai su ‘C’era una volta il West’, in cui il giornalista insisteva sulle possibili cattive influenze delle scene violente sul pubblico più giovane. 
Il 26 giugno di 50 anni fa la troupe di ‘C’era una volta il West’ si stava per spostare dalla Spagna a Monument Valley, in Arizona. Ma voglio fare un passo indietro: sono le 3 del pomeriggio del 31 dicembre del 1966, a Roma, e sta per iniziare la prima del film ‘Il Buono, il brutto e il cattivo’. Tra il pubblico c’è un venticinquenne Bernardo Bertolucci e in cabina di proiezione c’è il ventiseienne Dario Argento che vede Sergio Leone preoccupatissimo per la proiezione.
Bertolucci alla fine della proiezione andò da Leone e disse una cosa molto bizzarra: “Amo il modo in cui riprendi il ‘di dietro’ dei cavalli. Si, la maggior parte delle volte i cavalli sono filmati di profilo con un panorama sullo sfondo… mentre tu li riprendi da dietro e mi piace!”.
Al tempo Argento lavorava per Paese Sera come critico cinematografico e scrisse una recensione entusiasta del film dichiarando che avrebbe amato lavorare con Leone. Dunque quella proiezione fu l’inizio di un sodalizio artistico tra i tre.
Sergio era interessato a creare un film che entrasse a far parte della new wave cinematografica, pensiamo ai film di Bellocchio, di Bertolucci, alla Nouvelle Vague in Francia… Dunque dal gennaio al marzo del ’67, nelle case di Bernardo Bertolucci, di Dario Argento e di Sergio, i tre si impegnarono a scrivere un trattamento per un film e fin dal principio Leone sapeva di volerlo chiamare ‘C’era una volta il west’. Spiegò ai due che voleva fare un film che si fondasse sull’idea che una volta c’era un certo cinema, quello degli anni ’30 e ’40, che per lui significava moltissimo e che ormai era passato, non esisteva più… Una volta c’era la storia del West americano fino all’arrivo della ferrovia transcontinentale che collegava il deserto alle città e che distrusse per lui la ‘terra degli eroi’. Quindi un film sulla malinconia del cinema e sulla malinconia della Storia. Leone vedeva questi film come una sorta di guida su come affrontare la vita, si era servito di questi film per imparare come indossare un cappello, come comportarsi, come parlare… e questi personaggi rappresentavano per lui aspetti diversi dell’umano: Gary Cooper rappresentava il silenzio e la solitudine, Clark Gable rappresentava il soggetto romantico, mentre Jimmy Stewart era l’uomo della porta accanto. Questi personaggi erano come degli archetipi che lo avevano aiutato ad entrare nell’età adulta. Leone teneva molto a rendere un senso di malinconia e rifuggiva il genere del western all’italiana: voleva fare un film più profondo, che raccontasse del mondo che abbiamo perso e del passare del tempo.
Dunque da gennaio a marzo Leone, Argento e Bertolucci si sono messi a lavorare insieme e a guardare un grande numero di western. Il loro intento era di utilizzare i clichés tipici del genere non in modo pedissequo, ma di ri-proporli in maniera un po’ diversa, in modo che il pubblico ne riconoscesse alcuni elementi, ma li incontrasse in una nuova forma; l’intento era anche quello di trasmettere la sensazione di una sorta di “funerale” del western, come se un intero genere fosse arrivato al suo tramonto.
In “C’era una volta il West” ho trovato 35 riferimenti diretti ad altrettanti film western hollywoodiani e ho avuto modo di verificarli con Dario Argento e Bernando Bertolucci. […]
Per comprendere meglio questo aspetto di ri-proposizione degli archetipi del western vi propongo una citazione dello stesso Leone: ‘Volevo condensare tutti i personaggi più stereotipici del western americano: le più belle prostitute di New Orleans, il bandito romantico, il killer – che è mezzo businessman mezzo killer – alla ricerca di fortuna nel nascente mercato moderno, l’uomo d’affari che si sente un pistolero, l’avventore solitario. Con questi cinque stereotipi voglio prestare il mio omaggio al genere western e allo stesso tempo voglio mostrare i cambiamenti che attraversarono la società americana del tempo. Dunque quando questi cinque stereotipi appaiono nella scena, sono consapevoli di essere, fisicamente e moralmente, le vittime della nuova era nascente. E dunque in ‘C’era una volta il West’ vediamo come l’epoca di questi eroi stia volgendo al suo termine. […] In prima istanza intendevamo porre la questione di cosa è il cinema e volevamo rispondere a questa domanda mediante una visione caleidoscopica di tutto il cinema occidentale. Dunque tutti i riferimenti ai film western della tradizione erano riproposti per rendere il contesto di tutto il western americano, e allo stesso tempo per poter raccontare la mia personalissima fiaba. Si tratta del mio umile tentativo di mescolare insieme realtà storica e fiaba.”
Il film uscì nel Natale del ’68, la musica venne registrata da Ennio Morricone prima della lavorazione, per poi essere riprodotta sul set durante le riprese – ci sono foto di scena con un vecchio registratore che riproduceva la musica del film, in modo da far percepire intensamente l’atmosfera agli attori. Ogni personaggio ha il suo leitmotiv musicale: Jill o Claudia Cardinale con la parte lirica, una chitarra metal per Henry Fonda, l’armonica per Bronson… Morricone aveva scritto il motivo della sequenza iniziale, ma in un secondo momento optò per il silenzio, con i suoni della natura enfatizzati. […]
Morricone al tempo era da poco stato ad un concerto di John Cage a Firenze, il quale, salito sul palco con una scala di metallo, la pose vicino al microfono “suonandola” per venti minuti. Al concerto Cage aveva fatto musica con una scala. E’ chiaro come, nella scena iniziale di ‘Cera una volta il West’, Morricone sia stato fortemente ispirato dalla tesi di Cage per cui tutto quello che accade in un teatro può essere musica, anche i suoni dell’ambiente, della natura. Ed è esattamente quello che vediamo nella scena iniziale, una sinfonia di suoni della natura e dell’ambiente amplificati: il ronzìo delle mosche, l’acqua, il battere insistente del telegrafo, il treno in arrivo; e Morricone ha orchestrato tutti questi elementi come in un brano di performing art, facendo della scena un classico assoluto della storia del cinema.
Un ultimo aspetto, non molto noto, è l’enorme contributo dello scenografo Carlo Simi, in origine architetto, che aveva già lavorato con Sergio Leone in ‘Per un pugno di dollari”. Simi Aveva questa abilità di creare degli interni ingranditi rispetto alla loro dimensione naturale, conferendo un’enfasi particolare allo spazio, aveva anche disegnato i costumi maschili… Ho intervistato Questin Tarantino, un paio di mesi fa per il mio ultimo libro e a un certo punto mi ha detto: ‘tutti parlano di Leone e di Morricone, ma la terza persona a cui va il merito per questo straordinario film è Carlo Simi’. L’aspetto, la visione, la texture, la sensazione legata al film sono sicuramente frutto dell’immaginazione di Simi. […]

A cura di Laura Di Nicolantonio

Leggi l’intervista a Sir Christopher Frayling di Yannick Aiani su Cinefilia Ritrovata