Ajantrik

Ritwik Ghatak

T. int.: Pathetic Fallacy. Scen.: Ritwik Ghatak. F.: Dinen Gupta. M.: Ramesh Joshi. Scgf.: Robi Chattopadhyaya. Mus.: Ali Akbar Khan. Int: Kali Bannerjee (Bimal), Kajal Gupta (giovane donna), Shriman Deepak, Gyanesh Mukherjee (meccanico), Keshto  Mukherjee,  Gangapada Basu. Prod.: Promode Lahiry per L.B. Films International
DCP. D.: 102′. Bn.

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

“Uno dei pochi talenti veramente originali che il cinema di questo Paese abbia prodotto”: così Satyajit Ray definì il suo contemporaneo Ritwik Ghatak. Ajantrik, primo film di Ghatak uscito in sala, propone “un’integrazione emotiva con l’era della macchina” attraverso la storia di un eccentrico tassista chia- mato Bimal e una vecchia Chevrolet scassata chiamata Jagaddal. Ansante, strombettante e rantolante, la macchi- na sembra pensare con la propria testa, e anche Bimal la tratta come un essere umano. Seguendo il protagonista men- tre esercita il proprio mestiere in una cittadina del Bihar e nelle regioni della tribù degli Oraon, il film esplora gli aspetti comici e filosofici del bizzarro legame tra l’uomo e la macchina.

Libertà dai feticci
Quando Ghatak, divenuto profugo in seguito alla Partizione, concepì Ajantrik, la giovane nazione era divisa in due Stati tra loro ostili che opprimevano i loro stessi popoli ed erano destinati a isterilirsi attraverso ripetute crisi di identità.
Gli abitanti originari dell’India vivono lungo le sue foreste centrali e hanno sempre resistito a qualsiasi genere di colonizzazione. Ghatak aveva vissuto tra gli Oraon ai margini orientali di queste foreste, luogo dove fu forse perfezionato per la prima volta l’aratro. Gli abitanti dell’India centrale hanno sempre avuto a disposizione i migliori giacimenti di ferro del mondo, grazie ai quali altri popoli hanno forgiato armi e macchine che velocizzano i compiti umani con esiti spesso letali. Ma Ghatak sapeva che gli Oraon – e perfino coloro che vivevano alla periferia del loro cosmo, come lui – erano in grado di contrastare i violenti rivolgimenti della civilizzazione attraverso la compassione collettiva nata dalle strutture dell’eros. La danza, il movimento e le bandiere sventolanti sono forme che da semplici feticci individuali si sono trasformate in alankaras, figure retoriche e musica. Queste, a loro volta, possono abbandonare le astrazioni per avvicinarsi ai segni. Le rappresentazioni possono allora dar vita a creazioni artistiche o scientifiche, narrazioni al di là del tempo.
Ecco come Ritwik Ghatak giunse alla bizzarra struttura – se così può essere chiamata – di Pathetic Fallacy. Riuscite a immaginare un titolo più astratto per un film? Il termine Ajantrik amplia la parola jantrik (meccanico) per suggerire la sua antitesi. Abbiamo assistito alla fine dell’epoca che privilegiava il meccanico a scapito dell’organico. In questo film che si presta a molteplici interpretazioni, non ponendosi un obiettivo esplicito, Ghatak vuole ricostruire per noi i segni che gli Oraon e altri popoli del mondo cercavano di trovare nella loro esperienza.
Mi sembra che il movimento della danza liberi il feticcio dal suo timore ultraterreno, rendendoci nello stesso tempo estatici e lucidi. La freschezza tribale che pervade il film ci offre una promessa di libertà primordiale dalle abitudini che ci siamo cucite addosso. Il magico non può mai essere ridotto a una narrazione lineare con un inizio, una parte centrale e una fine. È ‘episodico’, iterativo, si muove in maniera curvilinea, disegna spirali che sembrano aprirsi e spingere all’espressione, contengono e liberano l’interiorità, il segreto dell’energia, del desiderio, del gioiello rubato per sempre alla sposa divina.

Kumar Shahani