04/07/2015

Il genocidio armeno e il silenzio del muto: il regno delle pietre urlanti

Gli armeni dovrebbero far conoscere l’Armenia, renderla viva nella coscienza di chi ignora, non sa, non sente“, Antonio Gramsci, Il grido del popolo, 1916.
IMG_7336_risultatoLa maggior parte delle favole armene cantate dagli ashik (i cantastorie della regione) si concludono con una morale comune, che recitava più o meno così: “Dal cielo cadano tre mele: una per chi ha narrato questa storia, una per chi ha ascoltato, l’altra per chi ha capito”. Parole del genere, alla luce dei film proiettati al Cinema Ritrovato, si dimostrano appropriate per il ricordo di ciò che successe nel “regno delle pietre urlanti” (Mandel’stam) ai primi del Novecento; poiché, anche con il mutismo del cinema degli anni ’20-’30 riguardo al genocidio, la riproposizione filmica di questi giorni ha dimostrato di saper sviluppare una ricerca critica della verità storica: saper parlare a chi vuole ascoltare. Coloro che sono intervenuti hanno sottolineato l’importanza del ricordo di quel dramma perpetrato dal governo turco tra il 1915 e il 1917. I morti si attestano tra gli 800.000 e i due milioni, con almeno il triplo dei profughi scampati agli orrori e sparsi in Asia, America ed Europa.

Così è stato possibile osservare l’attività documentaria sui paesaggi armeni del 1919, ripresi da due fotografi statunitensi (l’identità è tuttora sconosciuta) in Expedition of John Harbord in Armenia (USA/1919): i territori sono devastati dalla guerra ed è ben visibile la crisi umanitaria dei profughi a causa delle atrocità ottomane. Proprio in quegli anni, a tal proposito, il poeta e fotografo Armin T. Wegner (autore di numerosissime e preziose testimonianze fotografiche) si chiedeva come fosse ancora in diritto di respirare guardando “l’abisso di occhi morti” intorno a lui. Il critico Jay Weissberg, dopo le proiezioni, ha spiegato che in quegli anni non si parlasse abbastanza della situazione armena, nonostante la stampa americana provasse a sensibilizzare l’opinione pubblica a riguardo. La spedizione di John Harbord nasce proprio da questo tipo d’interesse e quindi non è da sottovalutare all’interno del contesto storico e politico.

Il popolo armeno ha origini antichissime e l’interesse verso i loro usi e costumi è dimostrato in tutte le pellicole proiettate in Cineteca: così Namus rappresenta l’importanza della tradizione ricollegabile a una cultura basata sull’onore e sulla rispettabilità della famiglia nei villaggi. Pur essendo una storia fedele ai IMG_7342_risultatocanoni del genere di finzione, il film di Hamo Beknazarian mette in scena la famiglia patriarcale, con l’uomo di casa custode dell’integrità sessuale delle figlie femmine e del loro onore agli occhi dei compaesani. Peter Bagrov ha sottolineato l’importanza di tale aspetto “enciclopedico” del film, alla base della riscoperta dell’Armenia. Il critico della Gosfilmofond Russia ha consigliato la visione di una seconda versione del film, accompagnata da musiche tradizionali armene, proprio per entrare in maniera più pertinente a contatto con la storia di questo popolo. Dal punto di vista stilistico il film risulta abbastanza tradizionale; tuttavia emerge l’interesse etnografico, quasi fosse un bisogno quello di far conoscere tramite l’arte la quotidianità del popolo armeno. D’altra parte, ciò risulta una prerogativa del cinema sovietico di questi anni; infatti anche in Kikos è riscontrabile questo interesse profondo per la testimonianza dei costumi degli abitanti delle terre caucasiche, dei paesaggi naturali, delle danze e del complesso religioso. Nel film di Barkhudaryan però, compare anche la tematica politica, particolarmente importante in quegli anni: il contesto armeno, essendo incluso nell’Unione Sovietica, viene rappresentato dai registi con intenti chiaramente propagandistici. Al di là di tale prospettiva, atta a celebrare il ruolo della compagine sovietica nelle varie regioni del proprio Stato, è da sottolineare la figura di Kikos, un buffo contadino che si dedica alla sua terra, alla sua famiglia e agli amici, in maniera del tutto apolitica. Sogna continuamente il proprio gregge e le rocce caucasiche della sua casa quando viene trascinato in guerra contro i turchi. La scena emblematica di un mondo attaccato alla natura che viene sconvolto dalla guerra è rappresentata dai girasoli che si piegano drasticamente al passaggio dei soldati a cavallo. Gli eventi rocamboleschi di cui sarà protagonista e la rivolta bolscevica lo convinceranno a prendere coscienza del suo ruolo e ribellarsi alle angherie dei Dashnak. Infine, come ha notato sempre Peter Bagrov, il film risente dell’influenza del cinema d’avanguardia sovietico, visibile nelle scelte di montaggio riconducibili a registi come Ejzenstejn.

Un altro interessante film proiettato al festival, Kurdy-Ezidy, si concentra sulla minoranza yezidi del popolo armeno, molto legata alle proprie usanze religiose (come la preghiera al sole, il bacio alla terra o la cura di un bambino tramite il sangue di capra). Il regista Martirosyan tiene a rappresentare un tipo di IMG_7339_risultatosocietà dove le donne hanno un ruolo lavorativo indispensabile rispetto agli uomini, ritratti ironicamente intenti a fumare e dormire tutto il giorno. L’attenzione si sposta poi sul problema dell’analfabetismo nei villaggi armeni. Barbara Sträuli è intervenuta dopo la proiezione sottolineando come il saper scrivere fosse un privilegio degli sceicchi e dei kulaki a discapito della classe contadina, non propensi al cambiamento; questi non vedevano di buon occhio il sistema scolastico che penetra nel villaggio grazie ai sovietici, poiché avrebbe causato l’emancipazione del contado e la perdita dei loro poteri. Anche in questo caso, il punto di vista è filorusso e mirato a dare un’immagine compiacente al governo sovietico, ma Martirosyan riesce a realizzare un quadro molto approfondito della quotidianità di questa comunità seminomade, con attenzione ai costumi e ai paesaggi naturali.

Il film più recente proiettato al Cinema Ritrovato è Nahapet (URSS-Armenia, 1977), quello che si riferisce più chiaramente al genocidio del 1915. Il regista Malyan decide di trattare quel drammatico avvenimento attraverso il silenzio del protagonista, che appare incapace di esprimere con parole gli orrori vissuti dalla sua famiglia in passato. Così il suo camminare incontro al pubblico è pieno di significato, poiché riesce a riassumere il doloroso passato del popolo armeno e la speranza di una rinascita nella memoria collettiva. Il film tratta inoltre l’importante tematica dell’emigrazione, portando a riflettere sulle numerose comunità armene ormai sparse per tutto il mondo, proprio in seguito agli accadimenti terribili di inizio del secolo scorso. Sono proprio loro, con le storie delle loro famiglie, che hanno più a cuore il valore di quella tragedia che ancora (incredibilmente) non viene riconosciuta dalla Turchia e da altri paesi.

Qualcosa di cui si deve parlare, non soltanto perché il valore storico di un eccidio di tali dimensioni non venga dimenticato, ma anche per concedere un doveroso tributo all’umanità del popolo armeno. Così fece il poeta Osip Mandel’stam, che andò in Armenia nel 1930. Egli decise di conservarne il ricordo nei suoi scritti e ritrasse così quella terrà, mostrando il fascino ammaliante della culla della civiltà umana sconvolta dalla recente sofferenza:

“Non ti vedrò mai più, / miope cielo armeno, / non guarderò più, gli occhi socchiusi, / all’Ararat, tenda di nomadi,/ non sfoglierò mai più/ nella biblioteca di autori-vasai/ il cavo libro della bella terra/ il manuale degli uomini primi”.

Daniele Barresi

Guarda il video degli appuntamenti della sezione ‘Armenia. Il genocidio e il silenzio del muto’ in pillole.