IL FAUNO

Febo Mari

R., S. e Sc.: Febo Mari. F.: Giuseppe Vitrotti. In.: Febo Mari (il mito/il fauno), Nietta Mordeglia (Fede), Elena Makowsla (Femmina), Vasco Creti (Arte), Oreste Bilancia (Astuzia), Ernesto Vaser (il carrettiere), Fernando Ribacchi, Giuseppe Pierozzi. P.: Società Anonima Ambrosio. 1325m. l.o.: 1385m. 35mm.

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

La fortuna del Fauno in età moderna è contraddistinta da un paradosso: da tempo conservato presso il Museo Nazionale del Cinema di Torino, per di più in una copia a colori (un’altra copia, con didascalie in danese, è alla Cineteca Nazionale di Roma), il film di Febo Mari non ha mai goduto della stessa reputazione riservata a un altro film di Mari, Cenere (1916), noto in Italia attraverso un esemplare in bianco e nero e restaurato a colori dalla George Eastman House di Rochester. Possiamo supporre che i motivi di ciò siano almeno due: l’aura di leggenda che circonda la figura di Eleonora Duse, protagonista e ispiratrice di Cenere, e la passata refrattarietà nei riguardi dell’estetica del decadentismo italiano al cinema. I tempi sono cambiati, e i drammi interpretati da Lyda Borelli e Pina Menichelli sono finalmente oggetto di un’attenzione priva di quegli accenti ironici che distinguevano la critica degli scorsi decenni.
La fama di Cenere ha tuttavia eclissato quella del Fauno anche per un terzo motivo: la sua programmatica quanto contraddittoria adesione ai canoni del realismo. Girato in esterni rurali, con una messa in scena volutamente spoglia, Cenere ha incarnato gli ideali di ciò che il cinema muto italiano avrebbe potuto essere senza il divismo: un cinema di gestualità essenziale, scarna, aliena dagli spasmi di quella sensibilità artificiosa e impotente che fu tipica della produzione drammatica degli anni Dieci e Venti. Benché inferiore al Fauno in termini di invenzione visiva, l’adattamento dal romanzo di Grazia Deledda appagava l’occhio con i suoi forti contrasti chiaroscurali, con le sue prospettive inconsuete (i mietitori in un campo, intravisti dietro il dorsale di una collina), con brevi ma pregnanti movimenti di macchina nelle scene d’interni.
È dunque giunto il momento di dare al Fauno il posto che gli spetta

Copia proveniente da

Grazie al contributo di

PROJECTO LUMIÈRE