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Vittorio De Seta

F.: Vittorio De Seta; Op.: Alfredo Manganiello; Mo.: Tita Perozzi; Org.: Agostino Zanelli; Prod.: Vittorio De Seta 35mm. D.: 11’

 

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

De Seta era un antropologo che si esprimeva con la voce di un poeta.
Da dove veniva questa voce? Quarant’anni dopo essermi posto la domanda ho capito che forse nei suoi documentari avrei potuto trovare una risposta. Alla fine li ho visti e sono rimasto stupefatto. Fin dalle prime immagini ho provato un senso d’inquietudine e di disorientamento, come se non fossi preparato a vedere quel che stavo vedendo. Sono stato sopraffatto da un’emozione intensa, come se avessi oltrepassato lo schermo e mi fossi ritrovato in un mondo che non avevo mai conosciuto, ma che improvvisamente riconoscevo. Un mondo al tramonto. Quella che stavo guardando era la mia cultura ancestrale prossima alla fine, a un passo dal suo ingresso nella sfera del mito. Mi venne in mente una scena del film Roma di Fellini in cui un affresco scompare al contatto con la luce durante la costruzione di una linea della metropolitana – frammenti di una civiltà antica che hanno raggiunto l’epoca moderna risuonando della loro epicità.

Ma non mi ero limitato a oltrepassare lo schermo, adesso stavo entrando nell’occhio del regista, come se, nell’atto di rimpossessarmi delle nostre radici comuni, riuscissi a vedere il mondo come lo vedeva lui. Stavo condividendo la sua curiosità e il suo stupore e realizzando con tristezza, come doveva aver fatto anche lui, che quella era l’ultima volta che la vitalità di una cultura incontaminata veniva filmata.

Era la Sicilia che vedevo sullo schermo, la Sicilia che, nella mia famiglia, i miei nonni erano stati gli ultimi a conoscere, la Sicilia dimenticata. Un luogo in cui la luce del giorno era preziosa e le notti completamente buie e misteriose.

Un luogo rimasto inalterato nei secoli, in cui lo stile di vita era sempre lo stesso, dove le calamità naturali facevano parte della vita normale, minacciando a ogni momento morte e distruzione. Un luogo in cui la religione rivestiva un’importanza primaria, in cui le sofferenze della vita si trasformavano in Calvario. Non è un caso che la Settimana Santa sia stata sempre così importante in Sicilia. In fondo ciò con cui questa gente si identificava era proprio la liturgia della crocifissione.

Erano i figli di Sisifo, che aveva imprigionato Thanatos per evitare il decesso dei mortali, i figli di Prometeo, che aveva rubato il fuoco agli dei per donarlo ai mortali, e per questo erano stati puniti per l’eternità. Gente che cercava la redenzione attraverso il lavoro manuale: nelle viscere della terra (Surfarara), in mare aperto (Contadini del mare), sulle colline (Parabola d’oro) – tirando le reti, tagliando il grano, estraendo lo zolfo. Gente che sembrava pregare attraverso la fatica delle mani.

Di cosa era composta questa alchimia? Era il cinema nella sua essenza, in cui il regista non si limita a registrare la realtà, ma la vive in prima persona. In quei documentari avevo riconosciuto la stessa umile empatia di De Seta che avevo trovato quarant’anni prima in Banditi a Orgosolo.

Non era solo il mondo dei miei antenati che mi era apparso davanti agli occhi, ma anche un cinema che non esisteva più. Un cinema che aveva il potere dell’evocazione religiosa.
 La proiezione era durata meno di un’ora, ma il tempo era passato lentamente, come se avessi abitato ogni suo singolo fotogramma. Era il cinema nella sua espressione migliore, un cinema capace di cambiarti. Avevo capito cose mai capite prima e vissuto emozioni a me sconosciute. Come se avessi fatto un viaggio in un paradiso perduto.

Martin Scorsese

 

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