RIDERE CIVILMENTE. IL CINEMA DI LUIGI ZAMPA

Perché Luigi Zampa? Perché sono passati trent’anni da quando ci ha lasciato? Perché l’ultima monografia scritta su di lui risale al 1955 (a firma Domenico Meccoli, per le edizioni Cinque Lune)? Perché è uno dei pochi autori rimasti esclusi da mode, rivalutazioni cinefile e cult?

Luigi Zampa ha diretto alcuni dei maggiori successi della storia del cinema italiano. Alcuni suoi film sono assurti al mito: Il vigile, Il medico della mutua. Zampa, però, non è diventato un regista proverbiale e dotato di un percorso riconoscibile, come un Monicelli, un Risi, un Comencini; l’accademia non l’ha studiato organicamente, al pubblico sono arrivate poche edizioni in DVD, e tanti suoi film, compresi i più importanti, non passano in televisione da decenni. Per non parlare della fama estera del regista, quasi nulla (ma non c’è da stupirsi: nel catalogo Criterion manca anche Pietrangeli…). 

Che cosa è mancato a Zampa? È partito dai telefoni bianchi, ha attraversato il neorealismo trovando per la prima volta una voce originale, è approdato alla commedia, ha precorso il cinema di denuncia; ma non è mai stato considerato un maestro o un padre fondatore di nessuna di queste correnti o filoni. Forse Zampa è stato sempre troppo in anticipo. Anni difficili, del 1948, è una commedia sul fascismo e il postfascismo, come ne verranno realizzate negli anni Sessanta. Processo alla città, del 1952, su soggetto di Rosi, è il primo film sulla camorra. L’arte di arrangiarsi, del 1954, contiene in nuce l’evoluzione del personaggio Sordi. 

Forse Zampa ha pagato il fatto di non avere mai fatto il simpatico, di non avere mai inseguito i media. Non è stato un personaggio, ha concesso poche interviste, ha sempre avuto un riserbo burbero e moralista (nel senso alto del termine), un po’ alla Germi; salvo sfogarsi in due romanzi autobiografici (Il successo e Il primo giro di manovella) che non devono avergli procurato molti amici, almeno tra i pochi che li hanno letti. 

In vita, comunque, Zampa ha patito guai e censure di ogni tipo, da cui è uscito, viene voglia di dire, eroicamente: basti il caso di Anni facili, nel 1953. E quasi mai è stato capito e valorizzato come meritava. Collaborare (in sei film) con un liberale antifascista come Vitaliano Brancati, negli anni Quaranta e Cinquanta, significava alienarsi la critica moralista (nel senso deteriore) di destra, di centro e di sinistra. La sua amarezza disincantata è stata scambiata per qualunquismo. E la sua inesauribile capacità di raccontare, descrivere, caratterizzare, indignandosi e divertendosi, è passata inosservata. Oggi gli zampiani sono diventati più numerosi. Il restauro di Anni difficili, curato nel 2008 da Cineteca di Bologna, Fondazione Cineteca Italiana di Milano e Museo Nazionale del Cinema di Torino, ha fatto riemergere un film essenziale per conoscere la nostra Storia. E per cominciare a riscoprire un regista che, come ha dichiarato Ettore Scola a “l’Unità”, il 19 agosto 1991, “ha introdotto una vena satirica nel nostro neorealismo e ha aiutato a nascere la commedia all’italiana. Zampa voleva poter anche ridere delle tragedie dei suoi uomini, ma ridere civilmente”.

(Alberto Pezzotta)

Sezione a cura di Alberto Pezzota