Le burrascose avventure di Giovannino Guareschi nel mondo del cinema

Le avventure dello scrittore di campagna Giovannino Guareschi nella città di sogni, miraggi e imbrogli del cinema, iniziarono con una collaborazione sommersa fra i contributi di altri umoristi dei tardi anni Trenta per un film-veicolo prodotto in funzione di Macario (Imputato alzatevi! di Mattoli, 1939). Ma l’esperienza non ebbe corso immediato per l’autore de La scoperta di Milano. Le sue avventure proseguirono con uno sfortunato tentativo di adattare i suoi racconti – Gente così (1950) – che sbandierava sui manifesti l’ingannevole dicitura “un film di Guareschi”. Culminarono, a partire dal 1952, nel clamoroso trionfo internazionale dei cinque film della serie dedicata a don Camillo e Peppone, che rese le maschere di Fernandel e Gino Cervi due archetipi popolari emblematici degli anni ‘50. Le avventure terminarono con una poco convinta collaborazione ad un filmetto nato sulla scia di Europa di notte (Gli italiani si divertono così, 1962) e soprattutto con l’aspro pamphlet satirico de La rabbia (1963), che segna anche la prima e unica apparizione del volto di Guareschi – accigliato e protetto dal suo cappello – sui manifesti. Ma quell’effige da réclame elettorale (o da “Wanted”), viveva in funzione della contrapposizione pretestuosa con Pasolini (autore della prima parte della Rabbia). La loro sfida, in effetti, non aveva luogo a procedere perché li divideva un abisso di estraneità.

Paradossalmente il connubio più fortunato di Guareschi con il cinema – la saga di don Camillo – fu vissuto dallo scrittore come uno sgradevole e prolungato incidente di percorso. Infatti ogni film suscitò i malumori dello scrittore di Fontanelle, furioso di vedere manomesse le sue storie, reinventate le sue situazioni, e soprattutto attenuato il suo convinto, incallito anticomunismo. In realtà, è anche attraverso il lavoro di Duvivier che lo schermo ha reso immortali le storie di Guareschi, traendone quell’umanità marginale e viscerale, le cui intemperanze possono essere corrette solo dalla soggezione religiosa. È l’anima di un “mondo piccolo” coincidente con un’Italia ancora agraria, pre-industriale e genuinamente paesana e primitiva (ma piccolo-borghese, a differenza dell’Italia popolare e sottoproletaria amata da Pasolini, che per questo è incompatibile con Guareschi).
Come umorista, Guareschi ha sempre riservato al cinema lo sguardo di un moralista ottocentesco, che vedeva Cinecittà come una minacciosa Babilonia, sentina di corruzione e decadenza dei costumi. Come autore di storie, ha donato al cinema dei personaggi vivi e vitali nei loro difetti e nella loro ingenuità (immortalati da due attori magistrali come Fernandel e Gino Cervi), un umorismo energico e talvolta tagliente, una serie di situazioni e ambienti che evocano un remoto paesaggio paesano e consentono, oggi, di decifrare l’umiltà, gli umori, le paure e le velleità di un’Italia che sarebbe stata divorata dalla televisione. Non a caso, proprio la Tv fu bersaglio di alcuni degli ultimi scritti satirici di Guareschi, che sarebbe certamente inorridito di fronte alla trasformazione del suo pubblico di lettori in una amorfa, abbrutita massa di telespettatori.

Non vedremo mai il film che Guareschi sognò di realizzare durante la detenzione in carcere: la storia del frate francescano padre Lino (Alpinolo) Maupas (1867-1924), anticonformista, generoso e vulcanico, “un frate che rubava ai ricchi per dare ai poveri, che difendeva i rivoluzionari rossi, che non esitava a entrare nelle case di tolleranza per questuare dalle prostitute indumenti e danaro da distribuire a poveri neonati dell’ Oltretorrente”. A leggere i suoi appunti, si direbbe che con padre Lino, Guareschi avrebbe approfondito molti motivi rimasti in nuce nelle storie di don Camillo. Ma fu proprio la diffidenza verso la città del cinema, a fermarlo per sempre sulla soglia del progetto.

Roberto Chiesi