RASKOLNIKOV
S.: dal romanzo di Fëdor Dostoevskij. Sc.: Robert Wiene. F.: Willy Goldberger. Scgf.: Andrej Andreev. In.: Grigorij Chmara (Raskolnikov), Pavel Pavolv (il giudice istruttore), Mar’ja Germanova (Sonja Marmeladova), Michail Tarsanov (Marmeladov), Maria Kryzanovskaja (Sonja), Elisaveta Skul’skaja, Alla Tarasova, Sergei Kommissarov, Andrej Slinovskij, Vera Orlova, Peter Zharov, Ivan Bersen’ev. P.: Lionardi Film der Neumann. L.O.: 3168m. D.: 140’. 35mm.
Scheda Film
Del film si conoscevano solo copie di circa 1800 mt, con una cattiva qualità fotografica. Il Nederlands Filmmuseum ha ritrovato una copia di distribuzione olandese del film che ha comparato ad altre versioni, in particolare quella russa, ottenendo una copia di circa 2700 mt che si avvicina notevolmente alla primitiva edizione.
“Questo film, che non è riuscito così bene come era stato pensato, solleva due problemi artistici che, a mio modo di vedere, saranno entrambi decisivi per l’evoluzione del cinema. Il regista Robert Wiene (l’autore, a suo tempo, di Caligari) appartiene infatti a quei pionieri dell’autentica arte cinematografica, le cui intenzioni sono più significative e stimolanti dei risultati ottenuti dai mestieranti. I due problemi che egli ripropone con questo film si chiamano espressionismo e Dostoevskij. È assolutamente certo che il film è l’ambito più proprio, forse l’unica patria legittima dell’espressionismo. I film moderni si avvicinano tutti a questo stile senza volerlo, quasi senza accorgersene. Oggi non c’è più nessun regista che ammetta uno sfondo “neutrale”, che non vorrebbe aver “animato” l’intero schermo della stessa disposizione di spirito che anima i volti degli attori. Stanze e strade devono ricevere una fisionomia. E quando passione e isteria deformano i volti – sarebbe, questo, soltanto l’ultimo passo logico che conduce all’aperto espressionismo -, allora dovrebbero distorcersi in modo conforme anche le forme degli oggetti nelle stanze e per le strade. Nel teatro, dove ci si cimenta spesso anche con l’espressionismo, il processo non è così “naturale” come nel cinema. L’uomo che parla è tanto più vivo e significativo delle cose mute che queste ultime diventano comunque marginali e di secondo piano. Nel film, invece, persona e oggetto, attraverso il comune essere muti, si ritrovano a condividere il medesimo grado di vitalità, quello della nuda visibilità, e le fisionomie e i contorni degli oggetti non sono meno impressionanti di quelli delle persone. Robert Wiene lo ha già mostrato in Caligari, con il prudente pretesto di far vedere “come un folle vede il mondo”. Nel suo Raskolnikov egli non ha nessun pretesto, e perciò è più cauto e misurato nell’espressionismo.
Nonostante ciò l’espressionismo ha anche qui una “naturale” verosimiglianza. Il film si svolge tra gente povera e cenciosa, in case semidiroccate. Sono edifici veramente sghembi e cadenti, e le macerie hanno forme sempre più fantastiche di abiti nuovi. È l’espressionismo della devastazione e della decadenza. Quando però le forme di una disarmonia isterica si trasformano in uno stile continuamente decorativo, allora perdono proprio il loro carattere espressivo, e l’emozione ininterrotta diventa monotona. Purtroppo è quanto accade in questo film. Inoltre, costumi e trucco naturalistici non si accordano con l’ambientazione stilizzata, e un film non può andare oltre gli sfondi evidentemente dipinti.
Per quanto riguarda Dostoevskij come problema cinematografico, purtroppo non posso più occuparmene in questa sede. Dostoevskij è il poeta che nei suoi romanzi ha saputo conciliare la più profonda introversione psicologica con l’eccitante emozione dei romanzi gialli avventurosi. Sembra quasi aver fornito i soggetti più redditizi per l’arte cinematografica di un futuro migliore. Di fatto, nonostante la fine regia di Robert Wiene, nonostante gli eccellenti attori e nonostante singole scene che appartengono al meglio del meglio (come quella di Raskolnikov davanti al giudice istruttore), questo Raskolnikov ha dimostrato una volta di più che è impossibile rappresentare su duemila metri di film intrecci e grovigli interiori come quelli dei personaggi di Dostoevskij. La continuità degli eventi, infatti, richiede un numero molto maggiore di singole, piccole scene di quante trovino spazio qui. Come Raskolnikov viene convertito da Sonja non è cosa che si possa esprimere con due volti e tre movimenti delle mani. Descrivere la lotta di due anime, il graduale cambiamento nell’aspetto e nei gesti dell’uomo, richiede spazio e tempo. Usando le parole si possono sorvolare molte cose, perché con le parole si può accennare, far capire e alludere. Ma con le immagini non si può sorvolare nulla. Perché le immagini parlano soltanto per se stesse”. “Der Tag”, 28 dicembre 1923.
(Bela Balasz, Schriften zum Film, Budapest, Carl Hauser Verlag, 1982 – Trad. di Luca Baldazzi).