MOJ SYN

Evgenij Červjakov

[Trasl. ing.: Moi syn] Sog.: dal racconto Delo No. 3576 di Dmitrij Sverčkov. Scen.: Evgenij Červjakov, Nikolaj Dirin, Viktor Turin, Jurij Gromov. F.: Svjatoslav Beljaev. Scgf.: Semën Mejnkin.
Int.: Anna Sten (Ol’ga Surina), Gennadij Mičurin (Andrej Surin), Pëtr Berëzov (Trofim), Ol’ga Trofimova (vicina grassa), Elena Volynceva (vicina magra), Nadežda Michajlova (vicina vecchia), Ursula Krug (madre del bambino morto), Vladimir Stukačenko (capo della commissione locale), Boris Feodos’ev (comandante dei pompieri). Prod.: Sovkino (Leningrado) DCP. D.: 50’. Bn.

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

Tra tutti i registi ai margini del cinema sovietico degli anni Venti, Evgenij Červjakov è forse l’unico la cui voce è stata ascoltata, il cui cinema è diventato un evento. I suoi film furono proclamati modelli di cinema poetico, ma sarebbe più esatto definirli esistenziali. Rappresentava, per così dire, il ramo ‘soggettivo’ e personale del cinema sovietico. Non solo si dissocio apertamente dal ‘cinema intellettuale’ di Ėjzenštejn, ma in sostanza si dissocio dalla società stessa: “Il mio scopo principale era quello di mostrare, attraverso il cinema, la rabbia, l’amore, la disperazione, la gelosia – in breve, l’intera gamma dei fenomeni emotivi comunemente chiamati ‘passioni umane’. E di mostrarli al di fuori da ogni contesto storico, di vita quotidiana, industriale o altro”. Questo scriveva a proposito di Moj syn, il suo unico film sopravvissuto in forma non censurata. La premessa di Moj syn lascia pensare a un melodramma. Nella primissima scena la moglie confessa al marito che il loro neonato non è figlio suo. Ma praticamente tutto finisce lì: non ci sono molti colpi di scena in senso convenzionale, e per il resto del film la coppia deve semplicemente fare i conti con la situazione. Per Červjakov il volto umano era “il vero centro di ogni film lirico” e “il più perfetto ‘strumento’ di produzione”. I primi piani di Moj syn sono così dilatati e i campi medi (e i pochi campi lunghi) così ascetici che lo spettatore è costretto a osservare ogni segno di vita con la massima attenzione possibile, e il minimo movimento acquista significato. Schiacciata dal senso di colpa, la moglie (interpretata magistralmente da Anna Sten) evita qualsiasi gesto superfluo; per gran parte del film è sopraffatta da uno sforzo costante per contenersi. Una tensione penosa da guardare. Červjakov voleva che i suoi attori trasmettessero le emozioni solo attraverso gli occhi, senza ricorrere alla mimica o ai gesti. Quando i personaggi perdono il controllo e compiono un gesto semplice come voltare la testa o alzare lo sguardo di fronte a un insulto, l’effetto è potente quanto l’isteria in un film muto ‘normale’. Dopo la riscoperta di Moj syn a Buenos Aires nel 2008, i muti di Červjakov sono diventati le rarità più ricercate del cinema sovietico: il suo film d’esordio del 1927, Devuška s dalëkoj reki (La ragazza da un fiume lontano), e oggi in cima alla lista dei film russi e sovietici più ambiti.

Peter Bagrov

Copia proveniente da

Restaurato in 4K nel 2024 da George Eastman Museum
presso il laboratorio George Eastman Museum’s Film Preservation Services, a partire da una copia 35mm.

Con il sostegno di Los Angeles Filmforum e The Getty Foundation.