G.p.u.

Karl Ritter

T. alt.: Ghepeu; Sog., Scen.: Andrews Engelmann, Felix Lützkendorf, Karl Ritter; F.: Igor Oberberg; Mo.: Conrad von  Molo; Scgf.: Johann Massias, Heinrich Weidemann; Mu.: Norbert Schultze, Herbert Windt; Su.: Ernst Otto Hoppe; Int.: Laura Solari (Olga Feodorowna), Will Quadflieg (Peter Aßmuss), Marina von Ditmar (Irina), Andrews Engelmann (Nikolai Bokscha), Karl Haubenreißer (Jakob Frunse), Hans Stiebner (Giudice Istruttore), Maria Bard, Native Land 52 Helene Von Schmithberg ( zia Ljuba), Albert Lippert (direttore d’albergo), Lale Andersen (cantante nel caffè), Wladimir Majer (il capo della G.P.U.), Nico Turoff, Theo Shall (sabotatore), Horst Winter, Ivo Veit; Prod.: Karl Ritter; Pri. pro.: 14 agosto 1942
35mm. D.: 99′. Bn

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

Questo è il più sinistro dei film, per esecuzione e soggetto, giacché descrive un’organizzazione scellerata dal punto di vista di un’altra, ugualmente spietata. Si crea così un effetto-specchio, una doppia proiezione tipica dei film nazisti (come di quelli sovietici d’epoca staliniana). (Potremmo ricordare che secondo Ohm Krüger di Steinhoff furono i britannici a concepire la nobile idea dei campi di concentramento.) Karl Ritter fu definito dallo storico William L. Shirer il gangster tra i registi di prima grandezza, e nelle sue inquadrature c’è una dose sufficiente di vecchia Chicago e di futura estetica kitsch della Guerra Fredda per giustificare questo giudizio. Goebbels nominò Karl Ritter “Professore” (insieme a Steinhoff e ad Harlan) perché capì che il regista aveva “più di chiunque altro celebrato implacabilmente l’ideologia nazionalsocialista e l’eroismo delle truppe”. Per una volta l’onorificenza era appropriata. Già i film degli anni Trenta di Ritter, come Patrioten e Pour le mérite, sono glacialmente e lucidamente marziali, con tipici tocchi di cultura alta (musica classica, Hölderlin) a condire trame professionalmente competenti e stranamente prive di ogni emozione. Stukas, il più famoso degli otto film di Ritter sulla Luftwaffe, li supera tutti per la grottesca retorica sulla guerra e l’aperta celebrazione della morte violenta. G.P.U. – o, come spiegato dal sottotitolo, Grauen-Panik-Untergang (orrore-panico-distruzione) – è uno studio sull’anarchia e il caos, uno sguardo sul ventre molle degli eventi mondiali: omicidi irrisolti, assassinii che hanno fatto tremare il mondo e misteriosi sabotaggi. È una sorta di documentario di viaggio, dato che i fatti si svolgono a Riga, Amsterdam, Göteborg, Helsinki, Rotterdam (di cui viene messa in risalto la “liberazione”) e naturalmente Mosca, con una generale e abituale mutilazione degli eventi storici. Goebbels, sempre all’erta, non era soddisfatto del film: dopo la pausa imposta dal patto Ribbentrop Molotov voleva ovviamente qualcosa di diverso dai costosi film anticomunisti finanziati dal regime nazista. I propagandisti dell’UFA distribuirono G.P.U. come “un lungometraggio documentaristico strettamente fedele ai fatti”, ma non funzionò perché il film ricorda troppo, su una scala più modesta, le mediocri produzioni di Hollywood sulla Chicago dei gangster. Tornando alla struttura a specchio del film, vi si può intravedere uno strano omaggio al Komintern, allora già vicino allo scioglimento (che avvenne nel 1943), ed è forse questa l’unica impressione di sincerità che il film comunica, costruendosi come autobiografia involontaria di un collega architetto dell’orrore. Detto questo, c’è molto su cui riflettere, anche a proposito della recitazione: Andrews Engelmann, il misterioso e colto commissario Boksha, era apparso in uno dei primi e decisivi film nazisti, Flüchtlinge; ed è particolarmente interessante assistere all’assolo di Lale Andersen, l’immortale interprete che lanciò Lili Marlene.
(Peter von Bagh)

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