GUIDA AL CINEMA RITROVATO 2025

 

Cecilia Cenciarelli, Gian Luca Farinelli, Ehsan Khoshbakht, Mariann Lewinsky

A Odessa

Dov’è Seraing? Chi visiterà la mostra che la Cineteca dedica a Georges Simenon sarà sorpreso da molte scoperte. Ad esempio la vicinanza tra artisti che ci sembrano lontanissimi, come i fratelli Dardenne e il padre di Maigret. È vero che i loro sguardi sono diversi, marxisti gli uni, anarchico l’altro, ma tutti e tre sono nati e si sono formati a Liegi, e Luc e Jean- Pierre – che non l’hanno mai abbandonata – mantengono il loro ufficio nel cuore della città. Simenon ha raccontato lo spaesamento di una moltitudine di personaggi sradicati, figli di quella rivoluzione che nel corso dell’Ottocento aveva reso Liegi laboratorio dell’industrializzazione europea; i Dardenne raccontano cosa succede, nel lungo periodo, alle persone, quando un grande sobborgo industriale chiude. Tutti i loro film sono ambientati a Seraing, il sobborgo industriale di Liegi. In tre hanno raccontato centovent’anni di trasformazioni antropologiche che ci riguardano tutti.
Ancora più sorprendente è scoprire le fotografie scattate da Simenon a Odessa. Nella primavera del 1933 lo scrittore ottiene il visto per entrare in Unione Sovietica e risiede per otto giorni nella storica città affacciata sul Mar Nero, provata da una recente carestia. Dopo quel viaggio, scrive Le finestre di fronte, uno dei rari romanzi di quegli anni a raccontare l’URSS di Stalin. A Odessa scatta anche un centinaio di fotografie, preziosissime, perché ci fanno sentire quello che vedeva, come fossimo accanto a lui, tra le strade, nei mercati, in spiaggia, assieme agli abitanti che cercano, nel sole, nel tempo libero, uno spiraglio di felicita. Noi, abitanti del cinema, conosciamo Odessa e soprattutto la sua scalinata, anche se non ci siamo mai stati. Sappiamo che collega il porto alla città e che un’illusione ottica la fa sembrare più lunga. Grazie a Ėjzenštejn e il simbolo di un cinema che, trent’anni dopo l’invenzione dei Lumière, sperimentava nuovi linguaggi, ma anche e soprattutto il simbolo di un’ingiustizia, di armi che uccidono civili inermi, anziani, donne, bambini, vite umane che vengono cancellate da una violenza cieca, disumana. Immagini che ci riportano alle stragi del nostro presente. Grazie alla sezione Isaak Babel’ – I racconti di Odessa possiamo cosi scoprire che quella stessa scalinata, in quello stesso 1925, era stata utilizzata anche da Aleksej Granovskij in Jewish Luck (Evrejskoe sčast’e) per raccontare il sogno di felicita di un pover’uomo.
Questo è Il Cinema Ritrovato: un luogo dove scoprire che il cinema è molto di più di quello che abbiamo immaginato, che il patrimonio cinematografico è un continente infinito di legami segreti tra autori che spesso non si sono nemmeno conosciuti, un territorio libero dove è facile imbattersi in scoperte folgoranti, in tutta la bellezza e l’orrore di cui siamo capaci. Mai come quest’anno il programma ci interroga su chi siamo, su chi vogliamo essere, da che parte vogliamo stare. Tutte queste immagini che insorgono dal passato ci chiedono che mondo vogliamo per il nostro futuro e per quello dei nostri figli. Il Cinema Ritrovato non è un cimitero di vecchi film, ma l’incontro attivo di un pubblico di oggi con opere del passato, perché la vita e il lavoro di tanti artisti non sia stato inutile.
La storia di Isaak Babel’ è molto rappresentativa. Tanto è noto come scrittore, quanto poco per il suo apporto al cinema. La rassegna che gli dedichiamo non è una monografia, ma una porta aperta su un momento irripetibile, tra il 1925 e il 1930, sei anni nei quali in condizioni ambigue e difficili artisti straordinari e diversissimi come Ėjzenštejn, Dovženko, Vertov e Granovskij sognavano un’Arte come non era mai stata immaginata per un futuro migliore: gli ebrei la fine della repressione zarista, gli ucraini la loro indipendenza, i comunisti un mondo giusto. Tutti patiranno il loro bisogno di liberta. Babel’ sarà ucciso nel gennaio del 1940 dagli uomini di Stalin, i suoi manoscritti sequestrati e distrutti.
Il patrimonio cinematografico può aiutarci? Citiamo la presentazione che Alice Rohrwacher ha fatto del miracoloso film di Thierry Frémaux, Lumière! L’avventura continua (Lumière, l’aventure continue): “Il titolo non è una domanda, ma un’esclamazione, una sorpresa e una scoperta quasi infantile. Ed è cosi che ci si sente dopo aver visto questo film, esclamativi: ecco perché andiamo al cinema! All’improvviso ci sembra di esserci ricordati qualcosa che non sapevamo di aver dimenticato, un senso più profondo in quella sala buia, ma anche più primitivo e misterioso: andiamo al cinema per ricordarci chi siamo. E per sapere chi siamo, dobbiamo imparare a vedere l’altro. Questo fanno i fratelli Lumiere viaggiando per il mondo con i loro apparecchi delle meraviglie: non vanno a mostrarsi superiori grazie alla loro tecnologia incredibile, ma vanno a vedere. E vedendo, ci fanno vedere”.

Nel sanatorio

Celebriamo il centenario di Wojciech Has, uno dei grandi maestri del cinema polacco, con due film. Uno di questi, La clessidra (Sanatorium pod klepsydrą, 1973), riflette lo spirito di questo festival: esplorare le stanze abbandonate dell’inconscio in quel vecchio edificio che è la storia del cinema. Ogni porta si apre su ricordi, sogni e incubi che si mescolano e si confondono, in un labirinto di immagini che si rispecchiano tra loro e, attraverso riflessi infiniti, ripercorrono centotrent’anni in cui l’umanità ha costruito la propria immagine, l’ha scomposta e ricomposta e talvolta, in esplosioni di violenza insensata e repressione dilagante, l’ha distrutta.
Distrutta fu la vita dell’autore della raccolta di racconti omonima da cui è tratto La clessidra, lo scrittore ebreo polacco Bruno Schulz, ucciso dalla Gestapo nel 1942. Così come quella del pioniere del cinema etnografico Friedrich Dalsheim, di cui proponiamo quest’anno Die Kopfjäger von Borneo (1936): il suo nome fu letteralmente cancellato da ogni copia del film quando i nazisti consolidarono il loro potere. Dalsheim si suicidò due settimane dopo la prima.
Il cinema è una forma d’arte fragile: labili e incostanti sono le vite e le reputazioni dei suoi creatori; precaria è la materia della pellicola; volatili sono la circolazione e la ricezione dei film. L’opera cinematografica può cadere in disgrazia – ghigliottinata dall’ignoranza e dall’oblio. Nessuno ha saputo restituire questa consapevolezza con la commovente intensità di Luigi Comencini in Il museo dei sogni (1949) e La valigia dei sogni (1953), due film che, come La clessidra, aprono altrettante stanze dimenticate del cinema attraverso l’elegiaca poesia del ricordo di ciò che non è più.
A Sergej Paradžanov è dedicato il bellissimo ritratto cinematografico Le dernier collage (1995). Ufficialmente il regista armeno fu incarcerato per la sua omosessualità, ma in realtà si intendeva reprimere la sua bruciante passione per la vita, incarnata in colori e forme strabilianti capaci di sconcertare e turbare un regime sovietico incolore, spietato e privo di immaginazione.
Tra i film di maggior impatto emotivo riportati alla luce quest’anno dal Cinema Ritrovato c’è sicuramente The Postman (Postchi, 1972), a lungo oscurato dalla censura. Il suo regista, il pioniere della nouvelle vague iraniana Dariush Mehrjui, è stato brutalmente assassinato insieme alla moglie in Iran nell’ottobre 2023. Un omicidio i cui contorni restano oscuri. Con sinistro presagio, il film parla di un uomo represso e dimenticato scivolato nel delirio e nell’omicidio. Il produttore Mehdi Misaghiyeh fu incarcerato e spogliato dei suoi beni dopo la Rivoluzione del 1979, semplicemente perché di fede bahá’í. Il film ci ricorda con forza come la bellezza autentica sia ormai sempre meno tollerata.
Non è azzardato immaginare che oggi un regista come Lewis Milestone – ebreo russo emigrato in America nel 1913 – si vedrebbe rifiutare l’ingresso negli Stati Uniti o rischierebbe l’espulsione a causa di un film come Fuoco a Oriente (The North Star, 1943), potente opera di propaganda su un villaggio ucraino in lotta contro l’invasione nazista. Milestone, che aveva assistito alle devastazioni della Prima guerra mondiale, capiva che ogni “guerra per porre fine a tutte le guerre” è spesso solo il preludio a un’altra guerra che dichiara di voler fare lo stesso. Autore di capolavori come Hallelujah, I’m a Bum (1933) e Uomini e topi (Of Mice and Men, 1939), di fronte al disastro economico e sociale Milestone si schierò sempre con gli ultimi. Bastò quell’empatia a esporlo a forti pressioni e a renderlo un bersaglio del maccartismo, gettando la sua carriera in una lunga e quasi irreversibile crisi artistica. A inizio anni Ottanta, due giovani studenti organizzarono a Los Angeles un ‘banchetto dei sopravvissuti’, invitando tutti i blacklisted che riuscirono a trovare. In La dernière fête des blacklistés Marie-Dominique Montel e Christopher Jones ci mostrano l’inizio del lavoro ancora in progress su questo prezioso materiale.

Hepburn e le altre

La guerra, con i suoi sconvolgimenti globali e gli esodi forzati, riceve un trattamento inatteso in La donna del giorno (Woman of the Year, 1942), dove la casa che Katharine Hepburn condivide con Spencer Tracy diventa un punto d’incontro per intellettuali da tutto il mondo e, particolare ancor più toccante, un rifugio per un piccolo profugo che Tracy, con ironia e tenerezza, impara ad amare. E una ‘commedia seria’, che affronta con sensibilità i temi più pressanti del suo tempo. La donna del giorno è uno degli undici titoli indimenticabili con protagonista Katharine Hepburn che figurano nella retrospettiva di quest’anno: film che mettono in luce il contributo rivoluzionario di questa paladina del femminismo, una donna dallo spirito libero e pragmatico le cui migliori interpretazioni parlano tanto al nostro tempo quanto al suo (compare perfino uno sbalorditivo riferimento alla possibilità che una forma primitiva di intelligenza artificiale sostituisca i lavoratori).
La fluidità di genere di Hepburn, magnificamente ritratta nel poster di quest’anno – unita alla raffinatezza, all’intelligenza e alla spinta instancabile verso il cambiamento – è il filo rosso di questa selezione di film, curata con rigore e sensibilità da Molly Haskell, una delle voci più influenti della critica statunitense. Il suo libro From Reverence to Rape ha rivoluzionato la riflessione sul ruolo delle donne nel cinema tanto quanto i film di Hepburn negli anni Trenta e Quaranta. Se il cinema noir hollywoodiano costruisce con precisione stilistica una prospettiva centrata su una figura femminile ideale, inaccessibile e spesso distruttiva – la femme fatale e le sue declinazioni – la sua variante scandinava, presentata a Bologna nella rassegna Norden Noir grazie alla collaborazione tra le cineteche di Danimarca, Norvegia e Svezia, introduce una svolta inattesa. Se da un lato riprende gli archetipi classici, dall’altro li reinterpreta con sensibilità nordica – e, sorprendentemente, due dei primi esempi del genere furono diretti da donne: la danese Bodil Ipsen e la norvegese Edith Carlmar.
Quest’anno, per la prima volta, dedichiamo una retrospettiva a un’autrice in piena attività: Coline Serreau, attrice, regista, ma ancora prima musicista e trapezista. Un’occasione per scoprire la curiosità, la forza radicale, l’intelligenza, lo sguardo sorprendente di una regista che sa farci ridere per farci pensare, che non si stanca di guardarci e studiarci, per ribaltare quello che non va, per proporre soluzioni alternative. I suoi film non sono classificabili, per questo ci piacciono.
A trent’anni, la voce di Márta Mészáros è già in piena formazione: della regista ungherese presentiamo tre preziosi cortometraggi restaurati, da cui emerge la sua grazia nel narrare le esperienze umane più fragili in forme nuove e non convenzionali. Con una forza paragonabile a quella delle sue contemporanee Varda, Šepit’ko e Chytilová, Mészáros metterà la rappresentazione del femminile – nella sua definizione identitaria, sessuale, politica e militante – al centro del suo cinema. Avviene già in A the Lőrinci fonoban (A Lőrinci fonóban, 1972), in cui assistiamo allo svolgersi silenzioso di una giornata di lavoro delle operaie di una fabbrica tessile. Non più oggetti idealizzati, ma presenze reali, individuali, dotate di forza e vulnerabilità, le operaie della cittadina ungherese di Lőrinci sono già esempio di una nuova coscienza di genere. Mészáros è una delle molte figure femminili del Cinema Ritrovato, generoso non solo di registe ma anche di autrici, sceneggiatrici, produttrici. Un aspetto questo a cui continueremo a dare risalto fino a quando ciascuna artista talentuosa di ogni epoca e latitudine non uscirà dal cono d’ombra in cui la storia del cinema l’ha relegata. È il caso di Mara Blasetti, leggendaria direttrice di produzione italiana a cui Michela Zegna dedica un ritratto; o della regista singalese Sumitra Peries di cui, grazie alle possibilità sempre maggiori offerte dal restauro, scopriamo The Girls (Gehenu Lamai 1978), opera prima piena di talento che guarda ai sogni infranti e alla fine dell’innocenza di una giovane nello Sri Lanka rurale degli anni Sessanta. E ancora l’adolescenza femminile al tempo di guerra al centro del primo lungometraggio di finzione di Jocelyne Saab, The Razor’s Edge (Ghazl-el-banat, 1985), ambientato in una Beirut piena di meraviglia e distruzione. Mentre The Arch (Dong fu ren 1968), denuncia la crudeltà delle convenzioni sociali che, dopo la morte del marito, annientano la voce e l’identità di una donna nella Cina del XVII. Il film segna l’esordio di Shu Shuen Tang, la prima regista di Hong Kong a ricevere riconoscimenti internazionali, in un’epoca in cui il cinema hongkonghese e cinese erano tutti al maschile.
Ritratti femminili complessi sono quelli che ritroviamo in due film di Mikio Naruse. Il primo, Woman’s Sorrow (Nyonin aishu 1937), fa parte della rassegna curata da Alexander Jacoby e Johan Nordström che indaga i cinque anni cruciali della carriera del regista (1935-39) che precedono lo scoppio della guerra; il film racconta di un matrimonio combinato all’interno della soffocante società giapponese. Il secondo e Nubi fluttuanti (Ukigumo, 1956), recentemente restaurato, nel quale spicca Hideko Takamine, una delle grandi attrici giapponesi. Esordisce a cinque anni, diventa la più famosa star bambina del Giappone, riesce a non farsi travolgere dal successo e avrà un’importante carriera da attrice, interpretando oltre centosessanta film e lavorando con molti dei maggiori cineasti del suo paese, da Ozu a Kinoshita, da Kurosawa a Naruse, che l’ha diretta ben diciassette volte.
Difficile non riconoscere il talento di Zoë Akins, poetessa, commediografa, sceneggiatrice, vincitrice del Premio Pulitzer per il teatro nel 1935. E sua la commedia al vetriolo The Greeks Had a Word for It, dove tre ragazze affittano un lussuoso appartamento con lo scopo di accalappiare un marito ricco; portata sullo schermo nel 1932 da Lowell Sherman, che sostituirà It con Them e avrà una Coco Chanel scatenata per vestire le tre protagoniste, diventerà nel 1941 Appuntamento a Miami e nel 1953 Come sposare un milionario… La stessa Akins è la sceneggiatrice di un altro film presentato a Bologna quest’anno, La falena d’argento (Christopher Strong, 1933), seconda interpretazione di Katharine Hepburn, che racconta dello scontro tra amore e lavoro, in una società dove l’indipendenza di una donna non è prevista. A dirigerlo e Dorothy Arzner (presente anche nella sezione Cento anni fa, come sceneggiatrice di The Red Kimona), la regista di maggior rilievo nello studio system hollywoodiano degli anni Venti e Trenta.
Chiudiamo questa carrellata di artiste con una primadonna della scena teatrale inglese e americana, troppo ingombrante per Hollywood: Tallulah Bankhead, famosa per le centoventi sigarette al giorno, l’abuso di alcool e droghe, l’esibizionismo – praticato soprattutto mentre recitava –, le amanti, tra cui Billie Holiday, e gli amanti, tra cui Johnny Weissmuller, il miglior Tarzan dello schermo. Di lei Joan Crawford disse: “Tutti la adoravamo. Eravamo affascinati da lei, ma ne eravamo anche terrorizzati… Aveva una tale autorità, come se governasse la Terra, come se fosse la prima donna sulla Luna”. Cosi unica, che, probabilmente, il personaggio di Margo Channing, interpretato da Bette Davis in Eva contro Eva era ispirato a lei, almeno cosi Tallulah sosteneva… A Bologna vedremo I prigionieri dell’oceano (Lifeboat, 1944), il suo maggior successo, che fu però uno dei pochi insuccessi della carriera di Hitchcock. Visto oggi, siamo estasiati dalla sua interpretazione, ma anche dalla profondità del film, apologo sul dover scegliere da che parte stare durante una guerra: dopo ottant’anni è tornato un tema drammaticamente attuale.

Esordi e film unici

Giuseppe Bertolucci, inatteso attore ventunenne nel corto La partenza (1968) di Jean-Claude Biette, considerava gli esordi un momento magico nella vita di un cineasta, che nel primo film esprime, in nuce, l’intero universo creativo della sua arte. Il programma di quest’anno è ricco di primi film che sembrano confermare questa teoria. Nel programma del 1925 troviamo le straordinarie prime prove di tre futuri maestri, Jean Renoir, Josef von Sternberg e Alfred Hitchcock – La figlia dell’acqua (La Fille de l’eau), The Salvation Hunters e Il giardino del piacere (The Pleasure Garden). Proseguiamo con un altro capolavoro del 1925, Grass: A Nation’s Battle for Life, della coppia Schoedsack e Cooper, la cui avventura umana e artistica è raccontata nel documentario King Kong, le coeur des ténèbres.
E poi ci sono gli esordi di Max Ophuls, Die verliebte Firma (1931), scoppiettante commedia sulla lavorazione di un musical; di Nikki de Saint Phalle, Daddy (1973), film liberatorio sul patriarcato; di Charles Burnett, Killer of Sheep (1978), divertente e amaro ritratto della vita di una famiglia afroamericana a Los Angeles; di Donald Cammell e Nicolas Roeg, Sadismo (Performance, 1970), così stupefacente che la Warner attese due anni prima di distribuirlo. Violento ed elegante, quasi un documentario su Mick Jagger e Anita Pallenberg – e con una colonna sonora spettacolare di Jack Nitzsche in cui compaiono brani di Randy Newman, Ry Cooder e dello stesso Jagger – è un film che non assomiglia a niente di quello che l’ha preceduto, ma ha influenzato e continua a influenzare quello che è venuto dopo.
Le opere prime di Aleksandr Askol’dov e John Bidgood rappresentano l’intera filmografia di due registi di immenso talento che, purtroppo, hanno potuto realizzare un solo film. La commissaria (Komisar), tratto dal racconto V gorode Berdičeve (1934) di Vasilij Grossman, venne girato da Askol’dov nel 1967 ma fu censurato fino al 1988 quando, presentato alla Berlinale, vinse l’Orso d’argento. Ci sono l’URSS e l’Ucraina, ci sono gli ebrei e i comunisti e poi c’è la protagonista, la Commissaria del Partito, che in piena guerra civile deve partorire in casa di un povero artigiano: disincanto, invenzioni, realtà e sogno, una felicita espressiva struggente. E poi c’è Pink Narcissus, scritto e diretto dal fotografo John Bidgood, girato tra il 1963 e il 1970 in 8mm, distribuito senza il consenso dell’autore che lo considerava non riuscito e che quindi si firmò Anonymus. Esplorando le fantasie di un giovane gay newyorkese, crea un universo cromatico inedito e vitale e diventa presto un film di culto.

Dal libro al cinema

È un’attrazione fatale, quella che spinge i cineasti a ispirarsi alla letteratura. È sempre stato cosi, anche quando l’impresa doveva sembrare impossibile: nella sezione 1905 troviamo già adattamenti di fluviali romanzi popolari ottocenteschi (Notre-Dame de Paris, I miserabili), compressi nei pochi minuti dei primi muti; mentre nella sezione 1925 la sontuosa trasposizione dei Miserables di Henri Fescourt, della durata di oltre sei ore, sarà il serial di quest’edizione. Altra impresa titanica Die Buddenbrook (1923), la riduzione del capolavoro di Thomas Mann, che presentiamo in un nuovo restauro, diretto da Gerhard Lamprecht, regista e fondatore della Deutsche Kinemathek; un doppio rapporto con la letteratura ha un prezioso film turco Aysel, Bataklı Damın Kızı (1934), ispirato a un racconto di Selma Lagerlof e sceneggiato dal poeta Nazım Hikmet.
Ci chiediamo perché La Vérité sur Bébé Donge (1952) non faccia parte del canone della storia del cinema. Tratto dal romanzo omonimo di Georges Simenon e una delle più riuscite trasposizioni della sua opera. Tutto è perfetto: la direzione di Decoin, la sceneggiatura, il ritratto di una provincia francese falsa e corrotta, la durezza e il pentimento di Francois Donge, industriale e traditore seriale magnificamente interpretato da Jean Gabin. Ma il film si supera grazie a Danielle Darrieux, qui all’apogeo della sua arte. L’attrice, che nel giro di pochi mesi sarà protagonista di due capolavori di Max Ophüls, La Maison Tellier, episodio di Il piacere, e Madame de…, dà ai suoi personaggi una profondità luminosa, una fragilità cosi umana da renderli eterni. In Italia il titolo del film diventerà La follia di Roberta Donge, verranno tolti otto minuti e cambiato il senso di molte frasi trasformando la rivolta della signora Donge in un caso di pazzia.
Nel rapporto tra pagina scritta e cinema, la sfida più ‘irragionevole’ è quella di Wojciech Has che traspone il romanzo ottocentesco di Jan Potocki Manoscritto trovato a Saragozza (Rękopis Znaleziony w Saragossie, 1964), in un film labirintico, onirico e surreale, dove lo spettatore si lascia trasportare dal genio ludico sfrenato del regista polacco.
E infine c’è Pinocchio (1972), nella versione di Comencini, pensata in cinque puntate da 55 minuti per la televisione e ridotta a poco più di due ore per la versione cinematografica. Per gli italiani che lo hanno visto sul piccolo schermo da bambini, il Pinocchio di Comencini è più importante del libro di Collodi. Una trasposizione perfetta in chiave di fiaba contadina, dove ogni attore (Manfredi, Lollobrigida, Stander, De Sica, Franchi e Ingrassia) si supera nel dare carne e ossa ai personaggi della favola.

Bambini

Più introspettivo e psicologico è il racconto di Bobita (1965), uno dei tre magnifici corti della cineasta ungherese Márta Mészáros. Attraverso gli occhi di un bambino, esplora il risveglio emotivo di una società socialista in cui l’esistenza sembra essere silenziosamente plasmata e soffocata dal conformismo e dalla rigidità ideologica. I bambini non sono solo una presenza costante nel cinema libero e anarchico delle origini, ma delle vere e proprie star naturali. Vivaci, capricciosi e dispettosi, sfuggono con astuzia alle regole e alle punizioni degli adulti. Proviamo a immaginare il fuggi fuggi del piccolo apprendista pasticcere in Les Farces de Toto Gâte – Sauce (1905) accompagnato dal tema musicale Pinocchio, composto da Fiorenzo Carpi: una birichinata che certamente piacerebbe a Comencini, alla sua anima di cercatore di film muti e di cineasta che ha saputo raccontare l’infanzia. Dal suo primo cortometraggio, Bambini in città (1946) a Incompreso (1966) – recentemente Isabelle Huppert ha confidato che la visione di questo film continua a farla commuovere come quando era piccola –, dalla serie tv I bambini e noi (1970), prova generale per Pinocchio, fino a Voltati Eugenio, Comencini ha sempre saputo come guardare i bambini, mettendosi alla loro altezza e dalla loro parte.
L’infanzia messa in scena dal cineasta e drammaturgo iraniano Bahram Beyzaie è invece definita dall’assenza (familiare e personale, ma anche strutturale e sociale). Fortemente influenzato dal teatro, dalla tradizione persiana e dalla sperimentazione modernista, Beyzaie segue una giornata di due bambini nella periferia di Teheran tra la sporcizia e le rovine di un mondo che sta crollando. Densissimo di simboli, The Journey (Safar, 1972) è un piccolo film di una bellezza visiva stupefacente. Tanti altri bambini attraversano il programma, dai film del Cinema Ritrovato Kids all’esordio di Truffaut (Les Mistons, 1957), fino alle farse silenziose di Stanlio e Ollio, adulti tornati bambini.

L’aria del tempo

L’aria del tempo resta attaccata a un film, ne rappresenta la carta d’identità, una prova di verità. Questo è evidente nei cinegiornali, che raccontano eventi che poi diventano storia. Per celebrare i 130 anni della Gaumont abbiamo pensato di chiedere al suo archivio ottanta minuti di newsreel del 1939. Non un anno qualunque. Nei cinegiornali coesistono eventi notissimi, accanto ad altri meno conosciuti, oltre a una massa di notiziole che rappresentano le persone comuni che, senza saperlo, vivevano quegli ultimi momenti di pace. Prendiamo allora un altro esempio dell’aria del tempo, Il pianto delle zitelle (1939), del fotografo Giacomo Pozzi-Bellini, un documentario folgorante su un rito religioso arcaico legato alla primavera, vincitore come miglior documentario a Venezia, poi censurato dal fascismo e considerato da Antonioni il primo esempio di cinema neorealista. Vediamo i volti delle donne in preghiera, i loro gesti, le loro voci che intonano i canti, i fazzoletti che cingono le loro teste. Una testimonianza preziosa e inconsapevole di un mondo che c’era e non c’è più.
Altro esempio sono i quattro cortometraggi realizzati, tra il 1931 e il 1945, da due straordinari sperimentatori, Franciszka e Stefan Themerson, coppia d’artisti capaci di un approccio interdisciplinare alle arti. Nel poetico e vibrante Europa (1931) lanciano un grido di dolore contro l’intolleranza e la violenza e un accorato appello al continente per dare rifugio a tutti; in Calling Mr. Smith (1943) interpellano lo spettatore utilizzando le armi dell’avanguardia e dell’astrazione per un lamento contro le atrocità naziste. Ancora più sorprendente è il caso di L’estrema rinuncia (Till We Meet Again 1944), dove tutto è improbabile e di cartapesta, a partire dalla Francia occupata dai nazisti, ricostruita a Hollywood, ma dove il genio di Frank Borzage e la presenza di un bel numero di artisti fuggiti dall’Europa, com’era successo sul set di Casablanca, infondono al film una verità e un’urgenza che, dopo pochi minuti, ci fa dimenticare di vivere nel 2025.
La realtà crea anche legami inattesi, come quello tra El inquilino di José Antonio Nieves Conde e La finestra sul Luna Park di Luigi Comencini. Entrambi del 1957, il primo girato a Madrid e il secondo a Roma, raccontano gli effetti del boom e della speculazione edilizia sulla vita delle persone. Il primo sarà sottoposto a pressioni dalla censura franchista, che ne modificherà il senso, il secondo sarà un insuccesso al botteghino, ma il vero inizio della carriera per Comencini.
Le strade dell’aria del tempo sono infinite e sorprendenti. In À la mémoire du rock (1963) François Reichenbach ci porta a Parigi in una grande sala da concerto e osserva il pubblico. Il paradosso è che per avvicinarci a quello che sta succedendo non usa la musica rock del concerto, ma il Quintetto per archi n° 5 di Boccherini e cosi ci porta nella gioia pura di quei giovani spettatori.
A volte l’aria del tempo passa per il colore, e quest’anno vi offriamo delle vette assolute di bellezza: il Technicolor profondo, tragico e onirico di Duello al sole (Duel in the Sun, 1948) ci conduce alla fine degli anni Quaranta, e quello caramellato di Artisti e modelle (Artists and Models, 1955) alle certezze patinate e plastificate dei Cinquanta. Ma basta vedere pochi minuti di El grito (1968) per svegliarsi a Città del Messico nel luglio del 1968, in quei giorni infuocati che prima dell’inizio dei Giochi olimpici sconvolsero il Messico.
Nell’India del 1970 ci porta Giorni e notti nella foresta (Aranyer Din Ratri), un film miracoloso che ritrae la complessità di un paese con la leggerezza che solo un maestro come Satyajit Ray sa immaginare. Nel film vediamo Sharmila Tagore – pronipote del primo premio Nobel per la letteratura indiano, Rabindranath Tagore –, una delle attrici preferite di Ray e uno dei volti più famosi di Bollywood. Nel film è misteriosa, cerebrale, magnetica, molto più affascinante e intelligente dei personaggi maschili che la corteggiano.
A volte è un attore a rappresentare un’epoca, anche interpretando ruoli fra loro lontanissimi, come quest’anno succede a Jack Nicholson che in Cinque pezzi facili (Five Easy Pieces, 1970) interpreta il non eroico Robert Eroica Dupea e cinque anni dopo l’eroico R.P. McMurphy di Qualcuno volo sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s). Due film epocali.
A volte un film ci riporta dove non siamo mai stati, al centro di qualcosa che abbiamo dimenticato, come il prezioso documentario di Férid Boughedir Caméra arabe (1987), che ci proietta alla fine dell’età d’oro del cinema arabo, quando esisteva una generazione di maestri come Mohammed Lakhdar- Hamina, Mahmoud Ben Mahmoud, Abdellatif Ben Ammar, Merzak Allouache, Mohammad Malas e Youssef Chahine. Tra i protagonisti di Caméra arabe c’è anche un giovane, eloquente Nouri Bouzid di cui mostriamo in prima assoluta il restauro di L’homme de Cendre (1986), un film in grado di scardinare molti tabu del cinema arabo.
In questo viaggio nel tempo non sapremo dire qual è il film più bello del Cinema Ritrovato, ma almeno sappiamo qual è il più brutto. Arrapaho, secondo l’autorevole critico Morando Morandini, è “il più brutto film della storia del cinema italiano”, un capolavoro trash dei primi anni Ottanta realizzato a bassissimo costo da Ciro Ippolito.

Esserci o non esserci

Il nostro festival si svolge per tre settimane e per otto giorni vede otto sale in attività dalla mattina a tarda sera e due arene, Piazzetta Pasolini e Piazza Maggiore, dedicate alle proiezioni all’aperto. Vive non solo di proiezioni, ma anche di incontri, con una bella compagnia d’artisti e professionisti, lezioni di cinema, performance e un fitto programma di concerti. Non è così vero che il cinema non sia un’arte performativa. O meglio, una delle specificità del Cinema Ritrovato è l’attenzione a ogni singola séance, alla sala dove avviene lo spettacolo, alla qualità delle presentazioni e delle proiezioni; anche quest’anno moltissimi saranno i film presentati in pellicola (da molti anni un’intera sezione del festival è dedicata al passo ridotto), e tutte le opere mute saranno accompagnate dal vivo dai migliori specialisti di quest’arte meravigliosa che restituisce musica alle immagini. Quest’anno avremo anche un’imbonitrice, Julie Linquette, che presenterà i magici film di Georges Méliès, riportandoci alle atmosfere delle proiezioni del primo cinema, quando ogni proiezione era magica.
Magiche saranno sicuramente le serate sotto le stelle di Piazza Maggiore del 21 e del 26 giugno, con la proiezione in 70mm di Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, 1977) e di La febbre dell’oro (The Gold Rush) che, dopo un lungo restauro, dopo cento anni torna a essere il film che fu alla sua uscita, accompagnato dal vivo dall’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna.
La parola ‘comunità’ è stata in questi ultimi anni, come quasi tutte le parole importanti, svuotata del suo senso arcaico e sacro, per diventare un mostro nelle mani di mostri. Eppure non troviamo un’altra parola per definirci. Noi, il pubblico bolognese, quello internazionale, gli archivi, le library, i curatori delle sezioni, gli autori di questo oggetto che avete tra le mani che si chiama catalogo e che è il frutto appassionato, competente, ossessivo di una redazione spettacolare che tiene in vita questa utopia realizzata: lavorare tutto l’anno per produrre un libro impossibile, dove i film, le opere più dimenticate, saperi diversi e profondi si incontrano e producono un piacere che è un atto di condivisione e trasmissione.
Parliamo di utopia realizzata perché la Cineteca, in questi trentanove anni è cresciuta e si è affinata attorno al Cinema Ritrovato. All’inizio era il Cinema Lumière di via Pietralata, poi le due sale di Piazzetta Pasolini, le proiezioni nel Cortile d’onore di Palazzo d’Accursio, lo schermo di Piazza Maggiore, spazi culturali che hanno preparato il progetto Modernissimo, una sala da 333 posti e un’area espositiva di 1500 metri quadrati.
I primi dodici mesi del Modernissimo hanno fatto registrare 146.000 biglietti venduti, record italiano per una monosala. Traduciamo: il Modernissimo, con la sua programmazione di storia del cinema, senza teniture di film di prima visione, è stata di gran lunga la monosala italiana di maggior successo aggiudicandosi il riconoscimento del Biglietto d’oro. Questi risultati sono il frutto di una storia quarantennale, a dimostrazione che la cultura richiede tempo e amore, che se si piantano semi, bisogna proteggerli e dar loro tempo per produrre frutti copiosi. Non siamo in pochi a crederci, stiamo uniti e prepariamoci al quarantennale del Cinema Ritrovato, che sarà una grandissima festa!

Intanto buon trentanovesimo Cinema Ritrovato a tutti!!