GUIDA AL CINEMA RITROVATO 2024
Cecilia Cenciarelli, Gian Luca Farinelli, Ehsan Khoshbakht, Mariann Lewinsky
Un festival per tutti
Iniziamo dai numeri. Che danno l’idea di quanto Il Cinema Ritrovato rappresenti un’eccezione nel panorama dei festival e delle manifestazioni culturali. L’edizione 2024 durerà 9 giorni ma le serate in Piazza Maggiore saranno ben 20; presenterà tra lunghi, cortometraggi e scopitones 480 film, prodotti in 35 diversi paesi, provenienti da oltre 140 archivi e prestatori. Uno sforzo colossale, reso possibile da 4 direttori, 12 curatori delle 16 diverse sezioni che compongono il programma e da una squadra di 81 professionisti, della Cineteca e del Modernissimo, che lavorano tutto l’anno, a cui si aggiungono, per gli ultimi mesi, 110 collaboratori e oltre 300 volontari. L’anno scorso abbiamo accolto oltre 5.000 accreditati, provenienti da 51 paesi diversi e oltre 120.000 spettatori hanno goduto delle 280 proiezioni; quest’anno, con l’arrivo del Modernissimo, ci aspettiamo numeri ancora più sorprendenti. Stiamo esagerando? No, al contrario, conosciamo il programma e sappiamo che i cinefili arriveranno da tutto il mondo per farsi abbagliare dalla bellezza della settima arte e del cinema ritrovato.
Un festival musicale
È vero che il cinema è l’arte della riproduzione, ma chi frequenta Il Cinema Ritrovato sa – e forse viene anche per questo – che il cinema può essere anche un’arte performativa. Piazza Maggiore è un luogo unico, dove ogni sera avviene un miracolo spiegabile solo in parte, perché quello che accade appartiene più alla magia che alla ragione. Che uno spazio che raggiunse il suo aspetto architettonico attuale circa cinque secoli fa possa diventare il più bel cinema del mondo, dove la comunità bolognese incontra quella internazionale dei cinefili, ci racconta bene il valore e l’imperscrutabile forza sovratemporale dell’arte e della bellezza.
Ma iniziamo a mettere in tavola le carte del programma. A proposito di proiezioni rare e preziose, l’archivio dell’Academy porta a Bologna le copie Technicolor vintage (alcune particolarmente vissute) di quattro film che appartengono alla mitologia del cinema classico, mentre due veri monumenti – Sentieri selvaggi (The Searchers) e Intrigo internazionale (North by Northwest) –, spesso nelle liste dei film più amati di sempre, saranno proiettati in 70mm nell’originale formato Vistavision, grandioso come lo sguardo dei loro autori.
Al Cinema Ritrovato l’invenzione dei Lumière diventa un’arte performativa anche perché tutti i muti sono accompagnati dal vivo da pianisti, piccole ensemble e grandi orchestre, al Lumière, in Piazzetta Pasolini e al Modernissimo. Quest’anno Piazza Maggiore ospiterà quattro concerti: My Cousin, unico film sopravvissuto interpretato da Enrico Caruso, con una sequenza dove ascolteremo anche la voce del grande tenore e una nuova partitura del maestro Daniele Furlati eseguita dall’ensemble del Teatro Comunale di Modena; My Grandmother (Chemi bebia) di Kote Mikaberidze, capolavoro sotterraneo del cinema georgiano, accompagnato dal trio finlandese Cleaning Women con una colonna sonora travolgente ed esplosiva; la prima del nuovo restauro, curato dal MoMA, di Il vento (The Wind) di Victor Sjöström, accompagnato da una celebre composizione di Carl Davis eseguita dell’Orchestra del Conservatorio G.B. Martini di Bologna diretta da Timothy Brock. Il quale dirigerà anche l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna che eseguirà le celebri musiche che Nino Rota scrisse per Amarcord di Federico Fellini.
Tra i tanti concerti, ci piace citare Silent Trilogy (Mykkätrilogia), trilogia di cortometraggi muti realizzati dall’autore di Scompartimento n. 6 Juho Kuosmanen, accompagnati dal vivo da un ensemble di musicisti finlandesi e da un rumorista. Un evento che ci rende particolarmente felici perché ci consente di ricordare, a dieci anni dalla sua scomparsa, Peter von Bagh, che per oltre un decennio ha guidato Il Cinema Ritrovato, trasformandolo e rendendolo quello che è oggi. Peter fu, a Helsinki, insegnante di cinema di Kuosmanen, che dal 2012 ha iniziato a realizzare i film che compongono questa singolare quanto folgorante esperienza di cinema muto contemporaneo.
Il Cinema Ritrovato è sempre stato un festival per le orecchie, oltre che per gli occhi, e anche quest’anno ci saranno alcune delizie sonore, come i sedici cortometraggi con protagonista Duke Ellington e i quattordici corti musicali del programma Women in Jazz della collezione Theo Zwicky. La lunga e appassionante ‘playlist’ del Cinema Ritrovato 2024 include – e citiamo solo alcune hit – la Marlene Dietrich cantante, Leonard Cohen (I compari), Bob Dylan (Pat Garrett and Billy the Kid), i Velvet Underground (Ich bin ein Elefant, Madame), Michel Legrand (Les Parapluies de Cherbourg), Ry Cooder (Paris, Texas), Ibrahim Ferrer e altri maestri cubani (Buena Vista Social Club) e, naturalmente, Mozart con l’Amadeus di Miloš Forman..
Al femminile
Impossibile citare tutte le donne protagoniste di questa edizione, ma iniziamo da due registe. La prima è Assia Djebar, scrittrice e poetessa algerina, autrice del sorprendente La Nouba des femmes du Mont Chenoua, frutto di un lavoro solitario e personale. La protagonista si muove alla ricerca della memoria perduta, intervistando sulle montagne berbere del suo paese natale le contadine e le donne che combatterono nella guerra d’indipendenza. Un film femminista – vincitore del premio Fipresci alla Mostra del cinema di Venezia del 1978 – capace di mescolare la musica araba a Béla Bartók, che aveva visitato l’Algeria nel 1913 per studiarne la musica popolare.Murdering the Devil (Vražda ing. Čerta) di Ester Krumbachová, opera di totale libertà artistica e visivamente sontuosa, è l’inizio e la fine della carriera registica di questa sceneggiatrice e costumista, donna ‘rinascimentale’ che aveva collaborato a molti film politicamente problematici della nuova onda cecoslovacca, vedendo progressivamente ridursi il suo spazio di espressione e di libertà. E anche se il film superò il controllo della censura e poté uscire in sala nel settembre 1970, rimase l’unica regia di Krumbachová.Al centro del Cinema Ritrovato 2024 c’è Lei. Dotata di una bellezza, di un fascino, di qualità attoriali fuori norma, Dietrich è molto più di una diva, è una delle grandi figure femminili del Ventesimo secolo. Per indicarla basta usare il suo nome di battesimo; se è vero in generale che il cinema ha fatto compiere all’umanità passi verso una società meno afflitta da regole e norme, Marlene, con la sua vita personale e professionale, ha dato un contributo decisivo, vivendo apertamente la sua bisessualità, interpretando ruoli di donne libere ed emancipate. Pur essendo voce e simbolo della Germania, non esitò a sostenere lo sforzo bellico statunitense contro il nazismo e dopo la guerra fu presente e fece concerti in Israele, Russia ed Europa orientale per promuovere la pace e il dialogo. A quasi cinquant’anni dalla sua ultima interpretazione è ancora un’icona queer, circondata dalla stessa inscalfibile aura di misteriosa divinità; a questo proposito, insieme ai suoi film, vi consigliamo di vedere o rivedere anche il bel documentario diretto da Maximilian Schell, nel quale Marlene, oltre a non voler essere inquadrata, pretende anche di non rispondere a nessuna domanda!Chissà se Dietrich avrebbe apprezzato che accanto a lei, in questo festival, ci fosse una figura così diversa come Delphine Seyrig. “Madame Tabard non è una donna, è un’apparizione” afferma Jean-Pierre Léaud in Baci rubati (Baisers volés) rivolto a Seyrig, che da icona glamour del cinema d’autore volle diventare interprete per registe come Marguerite Duras, Chantal Akerman e Liliane de Kermadec, passando lei stessa dietro la macchina da presa e realizzando quel capolavoro femminista, ancora troppo poco noto, che è Sois belle et tais-toi! che documenta come, ancora nel 1976, la produzione cinematografica offrisse alle attrici solo ruoli stereotipati e alienanti.
Uno dei punti di forza di Seyrig è certamente il fascino della sua voce, e una voce fuori dal comune è quella di Nora Aunor, protagonista del melodramma di Lino Brocka Bona. Aunor è stata attrice, ma soprattutto una superstar della musica filippina, con una lunghissima carriera che l’ha portata a pubblicare oltre 260 singoli. (A proposito di voci, ma al maschile, mostreremo i provini del Ferroviere, dove Germi prova la parte usando la sua voce, facendoci intuire quanto il film avrebbe potuto essere diverso se avesse scelto di non farsi doppiare dal grande Gualtiero De Angelis, all’epoca voce italiana di James Stewart e Cary Grant).
Stephanie Rothman è nota soprattutto per il suo lavoro negli anni Sessanta e Settanta, quando è stata una delle prime registe a praticare i generi horror ed exploitation, e tra le poche ad avere il controllo creativo sui suoi film. Di questa autrice statunitense, che ospiteremo a Bologna, mostriamo due commedie sexy, Group Marriage e The Working Girls; come racconta Rothman, “erano gli unici film che mi facevano dirigere” e lei lo ha fatto mettendo al centro della storia personaggi femminili liberi, con la voglia di cambiare il mondo.
Due dei registi omaggiati quest’anno, Kozaburo Yoshimura e Gustaf Molander, possono essere definiti ‘registi di attrici’. Yoshimura ha realizzato nel Giappone del dopoguerra una serie di splendidi ritratti femminili, spesso affidati a grandi attrici come Kinuyo Tanaka e Machiko Kyo (indimenticabile protagonista di Rashomon e interprete preferita di Mizoguchi). Gustaf Molander, con una prodigiosa carriera tra muto e sonoro, ha scoperto la Garbo, diretto Ingrid Bergman in sei film e lavorato con Harriet Andersson un anno prima di Monica e il desiderio.
Tra i film di Litvak – regista capace di lavorare con grandi interpreti e di tracciare personaggi maschili e femminili complessi – segnaliamo in particolare Anastasia, che regalò a Ingrid Bergman il secondo Oscar, dopo la ‘vergognosa’ (almeno per l’opinione pubblica americana), fuga d’amore con Rossellini. Siamo felici di ricordare anche Antonio Pietrangeli, che con i suoi ritratti femminili ha raccontato le donne italiane tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Lo fa, mirabilmente, in La visita, anche grazie alla sublime interpretazione di Sandra Milo.
Chiudiamo con una delle prime icone del cinema e del Novecento, la fatalmente velenosa Musidora; già interprete di Irma Vep nei Vampires, è ribattezzata Diana Monti in Judex, il serial di quest’anno, senza però perdere nulla della sua perfida eleganza da maschietta.
Film unici
Tentiamo un parallelismo spericolato tra due autori che sembrano lontanissimi: Mihály Kertész, nato a Budapest ed emigrato a Hollywood nel 1926 diventando Michael Curtiz, e Marco Bellocchio, nato a Bobbio e trasferitosi ventenne a Roma per studiare al Centro Sperimentale di Cinematografia. Il primo è un cineasta attivo tra muto e sonoro, che ha contribuito a codificare il linguaggio del cinema classico. Il secondo ha esordito a metà degli anni Sessanta e, insieme a Bernardo Bertolucci, ha rappresentato la punta avanzata della nouvelle vague italiana. Eppure un legame tra loro c’è: la longevità delle carriere. Quella di Curtiz inizia nel 1912 e finisce nel 1962, quella di Bellocchio inizia nel 1965 e, dopo sessant’anni, è ancora in piena attività. Anche i loro film presenti al festival, Az utolsó hajnal (1917) e Sbatti il mostro in prima pagina (1972), pur diversissimi, hanno un punto di contatto: riescono a cogliere e a restituirci l’aria del tempo. Nel film ungherese (ambientato a Londra, Parigi e in India, tutte location ricostruite a Budapest) gli inconfondibili elementi della cultura mitteleuropea emergono in maniera prepotente; allo stesso modo Bellocchio riesce a raccontare, in diretta, la tensione sociale, gli scontri, il senso di morte che caratterizzarono l’inizio degli anni Settanta in Italia.
Chi invece era in anticipo di almeno quarant’anni sul cinema internazionale era Seijun Suzuki, di cui presentiamo Deriva a Tokyo (Tokyo nagaremono, 1966) in un nuovo restauro. Un film strabiliante, in cui si passa, senza soluzione di continuità, da una scena madre all’altra; in cui le invenzioni visuali, narrative, cromatiche, spaziali sono talmente tante che l’impressione è di trovarsi non in un film di sessant’anni fa, ma in un film appena girato ambientato sessant’anni fa. Una modernità che, paradossalmente, danneggiò la carriera del regista.
L’approccio di Jancsò per I disperati di Sandór (Szegénylegények) è molto diverso, ma in noi spettatori procura una sensazione analoga, quella che le potenzialità latenti del cinema sono ancora tutte da esplorare. Sensazione che percepiamo quando vediamo un esordio come I monelli (Los golfos) di Carlos Saura, talmente nuovo, fuori norma – in particolare per la Spagna franchista – da essere censurato prima della première a Cannes e ancor di più censurato dopo quella proiezione. È un esordio anche E Johnny prese il fucile (Johnny Got His Gun), ed è l’unico film diretto da Dalton Trumbo, autore nel 1939 del romanzo da cui è tratto. Trumbo è stato uno sceneggiatore di grande valore, messo in un angolo dal maccartismo, e il film è una sconvolgente disanima sull’orrore della guerra, sulla stupidità e malvagità degli essere umani. Un’opera da vedere e da far vedere.
Non è un primo film, ma è certamente un film unico Freaks di Tod Browning che ha il merito di mostrare quello che il cinema ha sempre nascosto, quello che la società, per secoli ha considerato anormale: la diversità. Fu un enorme insuccesso, ma è certamente il più incredibile film che la MGM, nella sua lunga storia – iniziata proprio cento anni fa con He Who Gets Slapped di Victor Sjöström – abbia mai prodotto.
Altri oggetti unici che presentiamo sono senz’altro Godzilla (Gojira), il mostro figlio dell’atomica inventato nel 1954 da Ishiro Honda, le Alice Comedies, prima serie di successo di Walt e Roy Disney che apparve sugli schermi cinematografici nel 1924, e il primo lungometraggio animato sonoro mai realizzato per il cinema, Biancaneve e i sette nani (Snow White and the Seven Dwarfs, 1937) di David Hand, che ancora oggi ci lascia esterrefatti per la qualità delle animazioni, delle canzoni, dei colori, per la creazione di un universo, quello Disney, che nasce con questo film e continua ancora a crescere e a prosperare.
Unici sono i film di Pietro Germi, che hanno spesso innescato polemiche, sono incappati nella censura (Gioventù perduta), hanno causato dibattiti parlamentari (In nome della legge) o hanno addirittura contribuito a cambiare la legge (Sedotta e abbandonata e Divorzio all’italiana), creando nell’opinione pubblica italiana un approccio e una consapevolezza diversa sui temi del divorzio e dei delitti d’onore (più di mille all’anno, ai tempi in cui il film venne girato).
Unico, o certamente singolare, è scoprire il grande attore comico Fernandel in una commedia nera come L’Armoire volante di Carlo Rim, ritrovare la luminosa bellezza di Gabin padrone e prigioniero della casbah in Pépé le Moko, la timidezza di Charles Aznavour nel secondo film di Truffaut, Tirate sul pianista (Tirez sur le pianiste), la vitalità scatenata e sbruffona di James Cagney in una delle sue interpretazioni più memorabili, I ruggenti anni Venti (The Roaring Twenties) di Raoul Walsh.
Unica, per ragioni tecniche, è la copia di Surcouf che La Cinémathèque française presenta a Bologna; si tratta all’origine di una serial in otto puntate di Luitz-Morat del 1924, interpretato tra gli altri da Antonin Artaud. La copia che vedrete dura solo cinquanta minuti perché si tratta di una versione abbreviata per il mercato amatoriale. Una delizia rapidissima, come leggere Guerra e pace in meno di un’ora.
Unici, per il fatto di essere stati iniziati da un regista e conclusi da un altro, sono Il lottatore e il clown (Borec i kloun), iniziato da Konstantin Judin nel 1953 e, secondo la sua stessa volontà, completato da Boris Barnet dopo la sua morte, e Kvitka na kameni, iniziato da Anatolij Slisarenko e completato da Sergej Paradžanov, dopo che il primo aveva ordinato all’attrice protagonista Inna Burdučenko di correre più volte in un fienile in fiamme cagionandole fatali ustioni. Venne condannato a cinque anni di reclusione e solo Paradžanov ebbe il coraggio di subentrargli.
Il passo del diavolo (Devil’s Doorway, 1950) è l’esordio nel genere western di Anthony Mann. Ha come protagonista un nativo americano che, dopo aver combattuto per l’Unione nella Guerra civile, scopre al suo ritorno a casa di non essere nemmeno un cittadino americano. Per proteggere la sua comunità verrà emarginato e pagherà con la vita la sua diversità. Campo Thiaroye (Camp de Thiaroye, 1988) di Ousmane Sembène e Thierno Faty Sow racconta un episodio ignorato dalla storiografia ufficiale occidentale, quello di un battaglione di tirailleur senegalesi rientrato in patria alla fine della Seconda guerra mondiale, durante la quale ha combattuto tra le file dell’esercito francese. Umiliati e maltrattati dai loro precedenti compagni d’armi, invece di essere premiati, verranno massacrati. Quasi quarant’anni separano questi due film, eppure purtroppo la storia che raccontano è tutt’altro che unica.
Fonti d’ispirazione
Se ogni film che compone il programma è a suo modo unico, se ogni autore che presentiamo ha elementi peculiari, nondimeno sono evidenti i legami, le relazioni, a volte strettissime, tra le sezioni e tra le singole opere. Alle prime interpretazioni, un critico trovò la recitazione della Dietrich troppo simile a quella della Garbo (“per ora imita gli occhi semichiusi e il languido esotismo di Greta Garbo”), che a sua volta aveva esordito in La leggenda di Gösta Berling (Gösta Berlings saga) di Mauritz Stiller, al quale l’allora direttore della scuola di teatro drammatico di Stoccolma Gustav Molander l’aveva suggerita.
Uno dei documentari sul cinema più sorprendenti di quest’anno è Made in England: the Films of Powell and Pressburger, potente lezione di cinema di Martin Scorsese che, film dopo film, ci racconta la sua relazione personale, intima, vitale, con l’opera dei due grandi registi. Forse le immagini più emozionanti sono proprio quelle in cui Powell visita il set di Toro scatenato, con Scorsese che si fa fotografare a fianco del maestro. E senza Scorsese oggi L’occhio che uccide (Peeping Tom), apologo sullo sguardo, sul cinema, sulla differenza tra vedere e guardare, massacrato dalla critica alla sua uscita e presentato al festival in versione restaurata, forse sarebbe dimenticato.
Alexander Payne sarà a Bologna per ‘ritrovare’ assieme agli spettatori del Modernissimo Vacanze in collegio (Merlusse, 1935), quinto film di Marcel Pagnol e fonte d’ispirazione per il suo ultimo, bellissimo The Holdovers; mentre Damien Chazelle introdurrà Les Parapluies de Cherbourg, restaurato nel suo sessantesimo anniversario, che a sua volta deve moltissimo a Cantando sotto la pioggia (Singin’ in the Rain), di cui presentiamo una rara copia vintage in Technicolor. Ricorrono i cento anni anche di Sony Columbia, che porta a Bologna il restauro di Omicidio a luci rosse (Body Double) di Brian De Palma, regista che ricordiamo per le sue invenzioni, ma anche per la capacità di citare in maniera vitale e personale altri autori, dall’Hitchcock di Intrigo internazionale (North by Northwest), a La conversazione (The Conversation), a Murnau. A proposito: il 2024 è anche il centenario di L’ultima risata (Der letzte Mann), suo ultimo film tedesco, evocato da Wim Wenders in Perfect Days. Dalla sezione Cento anni fa apprendiamo che Alfred Hitchcock andò a Babelsberg giusto in tempo per osservare Murnau durante le riprese di L’ultima risata e che non smise mai di sottolineare l’influenza che questo film esercitò sul suo lavoro.
Come ricordano i curatori della retrospettiva dedicata ai lavori ucraini del maestro armeno, fu L’infanzia di Ivan di Tarkovskij a folgorare Paradžanov e a far scattare la scintilla del suo cinema così poetico, personale, libero e capace di dare nuova linfa alla forza visiva arcaica del suo paese. Quando poi Tarkovskij scrisse una lettera per protestare contro l’incarcerazione di Paradžanov negli anni Settanta indicò in Le ombre degli avi dimenticati (Tini zabutykh predkiv) come uno dei due film che avevano cambiato il cinema, sia dell’Unione Sovietica che nel mondo intero.
Forse la chiave per capire quest’edizione del Cinema Ritrovato è proprio questa, il movimento e la migrazione delle idee, di persone e di culture visive. Il georgiano di nascita ma di etnia armena Paradžanov, che ha realizzato alcuni film in Ucraina, ne è solo un esempio. Lo stesso vale per il russo-ebraico di origine ucraina Anatole Litvak, che ha girato film in Germania, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti dagli anni Venti agli anni Settanta, diventando uno dei più affascinanti casi di impollinazione incrociata nella storia del cinema. Sono pochissimi i registi la cui diversità di background ha così tanto contribuito alla loro comprensione dei traumi del Ventesimo secolo. Litvak attraversa lucidamente le rovine di rivoluzioni e guerre, in un viaggio alla ricerca del significato e della luce. La maggior parte dei film selezionati per questo primo e a lungo atteso omaggio sono stati realizzati negli studios di Hollywood, ma ci sono anche restauri di classici realizzati in Germania e in Francia.
Coppie, doppi, multipli
Il cinema è l’arte del noi, del singolo che si fa molteplice. Sarebbe esistita Marlene senza von Sternberg? Il Lubitsch touch senza i suoi attori? Se non ci credete cercate di vedere uno dei grandi caratteristi della storia del cinema, Felix Bressart, reso celebre da Lubitsch, in Mai più l’amore (Nie wieder Liebe!), primo film della rassegna Litvak. Tilda Swinton, che vedremo in The Protagonists, dice che con Luca Guadagnino, qui alla sua prima regia, si sente una famiglia, “siamo fratello e sorella, siamo compagni di gioco. La nostra è una conversazione che continua”.
Ma anche seguendo un solo attore quest’anno potrete vedere tutto e il suo contrario: Emil Jannings nel 1924 è sia un Nerone esagerato e decisamente sopra e righe nel Quo vadis? di Gabriellino D’Annunzio, sia il portiere degradato a guardiano dei bagni del già citato film di Murnau; poi i doppi ruoli che, nello stesso film, rendono indimenticabili le prove di uno dei più grandi interpreti del palcoscenico (Enrico Caruso in My Cousin) e di una delle attrici tedesche più raffinate (Henny Porten che interpreta entrambe le sorelle protagoniste di Kohlhiesels Töchter di Lubitsch, 1920). Moltissimi film di quest’anno si reggono sul gioco di coppia. Ad esempio La stangata (The Sting) non ce lo ricorderemmo se i due protagonisti non fossero i radiosi e irripetibili Paul Newman e Robert Redford; ugualmente La jena (The Body Snatcher), non sarebbe lo stesso se a battersi a morte in scena non fossero due mostri come Boris Karloff e Bela Lugosi, per l’ultima volta assieme. Ugualmente sappiamo che la collaborazione tra Kaneto Shindo e Kozaburo Yoshimura fu decisiva, tanto da portarli a creare una casa di produzione per realizzare i loro film più personali; e non ci può sfuggire che Paradžanov raggiunse il suo stile da quando poté lavorare con la montatrice Marfa Ponomarenko, che gli fu a fianco da Le ombre degli avi dimenticati a tutti i suoi film successivi; come non possiamo non restare soggiogati dalla qualità delle battute dei film di Pietro Germi, scoprendo che sono state scritte assieme a futuri colleghi e straordinari sceneggiatori.
È inutile giraci intorno: il duo più famoso di tutta la storia del cinema, Laurel & Hardy, sarà al Cinema Ritrovato 2024 con i suoi primi film: otto cortometraggi muti, finora conosciuti in copie malconce e traballanti, finalmente restaurate per la gioia nostra e di tutti gli appassionati, che potranno scoprire l’origine delle loro gag più note realizzate in assenza delle loro voci, in seguito parte fondamentale della loro comicità. Ma anche qui, la coppia è sì perfetta, ma quando appare James Finlayson lo è ancora di più!
Se poi volete battere strade nuove, la vera coppia da scoprire è quella dei due protagonisti di The Annihlation of Fish di Charles Burnett, lui appena dimesso da un istituto psichiatrico, lei in lite con il suo partner invisibile, con cui è ufficialmente fidanzata, il fantasma del compositore Giacomo Puccini…
Nuove frontiere
Ma, dopo tutti questi anni, lo abbiamo Ritrovato il Cinema? La risposta è scontata: lo stiamo cercando! L’edizione 2024 lo dimostra, con sezioni come Dark Heimat – che esplora un genere considerato minore e che invece contiene i fantasmi e il non detto della Germania e dell’Austria post-naziste –, Cinemalibero o I colori del cinema a passo ridotto, dove ogni film è una festa, una sorpresa, un riapparire di opere che erano svanite e che iniziano, con il nostro festival, una nuova vita. Tanto è stato fatto, ma ancora di più resta da fare e il documentario-saggio Onde está o Pessoa? di Leonor Areal ce lo racconta bene. Per sessantatré minuti esplora, indaga, analizza fotogramma per fotogramma un filmato girato una domenica pomeriggio del 1913 a Lisbona, alla ricerca del grande Fernando Pessoa. È come seguire un’inchiesta, e mano mano che osserviamo le immagini ci pare di essere lì, assieme a quel gruppo di intellettuali e artisti. Di colpo, un’immagine anonima, diventa eloquente e ci aiuta a capire un momento, un decennio, forse un secolo. Finalmente non guardiamo, vediamo!
Le due sezioni storiche Il secolo del cinema e Cento anni fa non sono solo un’agenzia di viaggi che organizza escursioni nel passato, ma anche due laboratori di ricerca ricchi di scoperte, un esempio di come si può lavorare a partire dai materiali conservati e continuamente scoperti negli archivi. Come nel caso del ritrovamento dei filmati di due gesuiti che, dal settembre 1903 all’aprile 1904, filmarono e fotografarono in Egitto, Palestina e Libano i luoghi e le genti della Bibbia. Materiale preziosissimo che documenta una terra oggi squassata da una guerra che pare destinata a non finire mai.
Così, a fianco delle opere dei maestri, potremo scoprire che l’unico cameraman a essere riuscito a riprendere l’attacco giapponese su Pearl Harbor del 1941 fu Alfred Dillimtash Brick, che nel 1924 fece parte della troupe newyorkese dei cinegiornali Fox che cominciarono a filmare la serie Looney Lens; o vedere rare immagini di eventi di cento anni fa: i funerali di Lenin, la notizia del rapimento e dell’assassinio da parte dei fascisti di Giacomo Matteotti, le ancor più rare immagini in movimento di una delle più importanti ballerine classiche, Anna Pavlova, o… l’inaugurazione delle Olimpiadi di Parigi!
Ma forse le immagini da cui ripartire sono in un documentario dal titolo anonimo, The Bus. Le ha girate l’attivista Haskell Wexler, destinato a un grande futuro (e due premi Oscar) come direttore della fotografia, che qui dà spazio e voce a un gruppo di anonimi cittadini che nell’agosto 1963 decidono di attraversare gli Stati Uniti per chiedere giustizia e pari diritti per gli afro-americani. Non vediamo la macchina presa, come non la sentiamo mai nei documentari di Lionel Rogosin. Ma quello che vediamo non possiamo dimenticarlo.
Il modernissimo...
Nel 1996 la prima edizione del Cinema Ritrovato si svolse nella sala della Cineteca in via Pietralata. L’edizione 2024 si svolgerà in otto sale (le due del Cinema Lumière, il DAMSLab, la Cervi, i cinema Europa, Arlecchino, Jolly e Modernissimo) e tre spazi all’aperto (Piazza Maggiore, Arena Puccini e Piazzetta Pasolini). Ognuno di questi luoghi accoglie una parte specifica della programmazione e ha accompagnato la crescita della nostra manifestazione contribuendo a trasformarla. Il cinema Arlecchino ci ha permesso di proiettare adeguatamente il CinemaScope e i grandi restauri; il cinema Jolly di allargare la programmazione accogliendo un pubblico più ampio e variegato, che Piazza Maggiore ha contribuito a moltiplicare; Piazzetta Pasolini di ritrovare il fascino di una proiezione antica con la luce magica della lanterna a carbone. Ci sono voluti trentotto anni, è stato necessario assistere all’apertura a Madrid del Cine Doré della Filmoteca Española diretta da Chema Prado, del cinema Eden a La Ciotat, visitare le meravigliose cattedrali del cinema, ora tutte chiuse, sulla Broadway a Los Angeles o il Castro di San Francisco, per capire quanto il successo delle proiezioni in Piazza Maggiore ci stesse dicendo della voglia di tornare al cinema, in luoghi dove un film trova lo spazio perfetto per accoglierlo.
C’è voluto un assessore intellettuale come Angelo Guglielmi che, per contrastare la chiusura delle sale che stava cancellando i cinema del centro storico di Bologna, ha convinto la Giunta comunale ad approvare un provvedimento per bloccare il cambio di destinazione d’uso dei locali di un cinema chiuso. Grazie a quell’atto lungimirante la Cineteca di Bologna ha ricevuto in usufrutto gratuito il Cinema Modernissimo dalla proprietà del Palazzo Ronzani in cui ha sede e ha potuto sviluppare un progetto sotterraneo di riuso di spazi in parte pubblici (1600mq del sottopasso realizzato nel 1959 e chiuso da una ventina d’anni, trasformato in una galleria che ospiterà la prima mostra di Alice Rohrwacher, Bar Luna, e l’esposizione dedicata alle fotografie di Bologna) e in parte privati (2000mq del vecchio Cinema Modernissimo, chiuso nel 2006).
Dalla prima idea al completamento sono passati quattordici anni, durante i quali il progetto si è sviluppato, è maturato, ha trovato nell’amministrazione comunale e in Confindustria Emilia Area Centro dei complici e sostenitori. Ci piace qui ricordare Pathé e Gaumont, due società che rappresentano la storia del cinema, che hanno subito creduto nel progetto. Lo scenografo Giancarlo Basili ha risvegliato il fascino di una sala storica completamente reinterpretata anche grazie a una schiera di artigiani di straordinaria qualità. Il Modernissimo è aperto dal 21 novembre 2023. Da allota ha accolto più di centomila spettatori paganti, dato che la colloca nettamente in testa, per numero di biglietti venduti, tra le monosale italiane.
Mancava ancora l’apertura della pensilina, disegnata, come l’ingresso del Modernissimo, da Mario Nanni. Siamo felici che avvenga durante Il Cinema Ritrovato, un evento senza il quale questo progetto non sarebbe neppure stato concepibile. Percorrere le scale della pensilina di Piazza Re Enzo sarà un viaggio nello spazio e nel tempo. Pochi gradini per scendere dal livello stradale, quello caotico della vita quotidiana, a un ‘-1’ dove si potrà trovare un centro culturale, un cinema e uno spazio espositivo. Indietro nel tempo ci porteranno le tante tracce archeologiche, i mosaici di una villa romana, i basolati dell’antica via Emilia. Sarà evidente come la storia ci cammina a fianco e accompagna il nostro presente. Se vi soffermerete a osservare le tessere del mosaico, vedrete come ognuna è diversa dall’altra. Allo stesso modo i personaggi del manifesto di Amarcord che Fellini ha chiesto a Geleng di disegnare, visti da lontano, possono sembrare una folla indistinta, ma osservati da vicino rappresentano tipi tra loro molto diversi. Abbiamo messo uno specchio sopra quel quadro meraviglioso, perché i personaggi di Amarcord possano da lì invitarci a diventare noi i protagonisti del prossimo film.
Il progetto Modernissimo andava ideato, andava realizzato, aveva bisogno di istituzioni che lo sostenessero e finanziassero, ma senza il pubblico che ha affollato per quarant’anni il Cinema Lumière, senza il pubblico internazionale del Cinema Ritrovato che ne ha certificato l’autorevolezza, oggi il Modernissimo non esisterebbe. Possiamo dirlo con fierezza ed emozione: il Modernissimo è il frutto di una comunità internazionale che crede nel cinema e nella sua storia.
Non è poca cosa, soprattutto in un anno nel quale sembra smarrito il valore umano della convivenza e della parola pace.
PS: in tanta abbondanza presentiamo anche la prima parte del leggendario restauro della Cinémathèque française, il Napoléon di Abel Gance.