Tormento
Sog.: Liberio Bovio, Gaspare Di Majo; Scen.: Aldo De Benedetti; F.: Tino Santoni; Mo.: Mario Serandrei; Scgf.: Ottavio Scotti; Mu.: Gino Campese; Int.: Amedeo Nazzari (Carlo Guarnieri), Yvonne Sanson (Anna Ferrari), Annibale Betrone (Gaetano Ferrari), Mario Ferrari (L’avvocato), Teresa Franchini (Rosina), Tina Lattanzi (Matilde Ferrari), Aldo Nicode- Mi (Ruffini), Giuditta Rissone (Madre Celeste), Vittorio Sanipoli (Rossi), Roberto Murolo (Enzo Sandri), Rosalia Randazzo (Dinuccia); Prod.: Giuseppe Bordogni Per Labor Film, Tita- Nus; Pri. Pro.: 25 Novembre 1950; 35mm. D.: 94′. Bn.
Scheda Film
“Ebbe un grosso successo di cassetta, e lo spettatore, nei paesi di campagna e in periferia, lo segue ancora oggi con le lacrime agli occhi. (…) Anche qui, come negli altri film d’appendice, il collaudato dosaggio di elementi di successo: l’innocenza bellezza onestà laboriosità offese e avvilite dalla prepotenza ricchezza ingiustizia (in una “storia familiare”); la bambina, il sacrificio di una madre, lo strazio della separazione; le angosce che solo questa madre conosce (“È una santa”); la miseria e il lavoro contro la ricchezza proterva; una suora grassa, sfatta, e con pappagorgia. Inoltre: una canzone famosa che Murolo canta in due riprese, come in ogni tradizionale melodramma popolare e nella sceneggiata (…). Inoltre compaiono i momenti di distrazione comica (…). Nel punto culminante, il regista scarica l’emozione, lacrimosa per eccesso, con l’inquadratura della guardia carceraria che regge in braccio goffamente il fantolino (…). Tuttavia, accanto a questi numeri di repertorio ancora innocui, compare l’elemento ruffianesco, la speculazione sopra le debolezze (rassegnazione stanca, ripiego sul miracolismo) dei poveracci tribolati. La Chiesa vi compare come il prezzemolo: a introdurre, risolvere e chiudere le circostanze più varie e imprevedibili: surroga ogni iniziativa dei personaggi, prende l’aspetto del caso fortunato e del compenso garantito alla rassegnazione ecc. Manovrando l’incastro Chiesa-Gesù-Madonna-suore si punta su una sorta di patetismo scalcinato (…). La malafede di questa parte del racconto proviene dalla sceneggiatura (Aldo De Benedetti) piuttosto che dalla regia del film (Raffaello Matarazzo). Matarazzo resta il simbolo della produzione d’appendice degli anni cinquanta (ormai scaduta nel cinema ma non in televisione) che muove il meccanismo cinematografico nel groviglio dei grossi sentimenti convenzionali. (…) Invitai qualche anno fa Matarazzo in una scuola a discutere con i giovani che avevano visto l’insieme dei suoi film. Gli scolari ebbero l’impressione di trovarsi di fronte ad una persona in buona fede (“trentasette milioni di spettatori hanno visto i miei film”, ripeteva spesso), candido nella difesa di certi principi. (…)”.
Pio Baldelli, Il cinema popolare degli anni Cinquanta, in Catalogo Bolaffi del cinema italiano 1945-1965, a cura di Gianni Rondolino, Bolaffi, Torino, 1967