MEET ME IN ST. LOUIS
Sog.: dalla serie di racconti brevi 5135 Kensington di Sally Benson, poi raccolti nel romanzo Meet Me in St. Louis. Scen.: Irving Brecher, Fred F. Finklehoffe. F.: George Folsey. M.: Albert Akst. Scgf.: Cedric Gibbons, Lemuel Ayers, Jack Martin Smith. Int.: Judy Garland (Esther Smith), Margaret O’Brien (‘Tootie’ Smith), Mary Astor (signora Anna Smith), Lucille Bremer (Rose Smith), Leon Ames (signor Alonzo ‘Lon’ Smith), Tom Drake (John Truett), Marjorie Main (Katie), Harry Davenport (il nonno). Prod.: Arthur Freed per Metro Goldwyn Mayer. 35mm. D.: 113’. Technicolor.
Scheda Film
“Nessun posto è bello come casa mia”, aveva stabilito Judy Garland pochi anni prima, stremata dai bagliori del mondo di Oz e lieta di ritrovarsi nel suo grigio Kansas. L’eco di quella frase risuonerà in tante commedie familiari degli anni Quaranta e Cinquanta, e Minnelli saprà mostrare delizie e angosce dell’ancoraggio domestico, in case stravolte dai preparativi d’un matrimonio (Il padre della sposa) o dentro caravan sull’orlo dell’abisso (Dodici metri d’amore). Ma mai l’affermazione è stata sonora, e dolcemente melodiosa, come in questo film che il giovane regista riceve dalle mani di Cukor, un musical che Arthur Freed produce senza precedente teatrale, sulla base di alcuni racconti apparsi sul “New Yorker”. La casa qui s’identifica con una città, St. Louis (che di fatto non vediamo mai, ma non importa, riverbera dai cuori e dalle voci dei protagonisti) e un mondo, migliore dei mondi o piuttosto unico mondo pensabile, se l’ipotesi di doversene andare scatena terrori e lacrime. Come potrebbe non essere così, quando si è avuta la fortuna “di nascere nella mia città preferita”, come cinguetta la “micro-Bernhardt Margaret O’Brien” (Catherine Surowiec)? La mia città preferita, ovvero la mia nazione preferita: il film colloca l’azione nel 1903 ma esce nel 1944 di guerra…
Minnelli, al primo incontro con il Technicolor, immerge questa celebrazione della famiglia americana nella morbidezza evocativa del colore impressionista, fino alla letterale citazione di Renoir père, due fulve fanciulle al pianoforte. Poiché ogni mondo incantato è costruito sul rimosso, non mancano le ombre, e più volte la morte viene chiamata in causa, pur dislocata con apparente innocenza (morte di bambole, mascherate di Halloween, decapitazione di pupazzi di neve). Sul piano stilistico, lo schema è chiaro: trionfo del piano medio, sovraccarico di volti arrossati, cappelli e nastri, tappezzerie bordeaux, volants azzurri, rosei cosciotti di manzo e torte decorate, e momenti in cui tutto si dissolve per far spazio a primi piani di assoluta purezza cromatica e affettiva, gli occhi sgranati di Judy Garland, la voce luminosa nelle canzoni che danno al film la sua legatura (sgorgando naturalmente dallo snodo narrativo, e nel 1944 non è affatto scontato). Quando infine arriva, l’Esposizione universale del 1904 è al di là di quella balconata che non varcheremo mai: una fantasmagorica silhouette, un mondo nuovo, un meraviglioso panorama: comincia l’età Vincente Minnelli del musical americano.
Paola Cristalli