HP2 e HM17
35mm. L.: 10m. D.: 20 secondi a 16 f/s.
Scheda Film
“Dal 1996, la Cinémathèque Française ha iniziato il restauro delle bande cronofotografiche di Etienne-Jules Marey conservate nelle sue collezioni. Si tratta di circa 400 piccoli rulli di una sottile pellicola nitrato, soprattutto negativi, larghi 9 centimetri e lunghi un metro, contenenti in media una quindicina di immagini registrate fra il 1890 e il 1895. Supporto molto fragile, formato non riproducibile, immagini mitiche praticamente intoccabili ed invisibili in questo stato.
La decisione della Cinémathèque Française di usare la tecnica digitale per restaurare questo materiale pone forse qualche interrogativo, legato non più al trasferimento su supporto 35mm, ma al trattamento e all’eventuale trasformazione dell’immagine stessa. Paradossalmente, la prima operazione consiste nel tentare di immobilizzare una parte dell’immagine, come se si trattasse di un malato recalcitrante. In effetti, il digitale permette di correggere l’instabilità della ripresa originale e di attenuare così il disagio che provoca. Ma questa correzione, se è eccessiva, può diventare per lo spettatore ugualmente spiacevole, comportando l’immobilizzazione dello sfondo in un’immagine fissa per qualche secondo. In questo caso, la linea del pavimento si arresta, le foglie degli alberi smettono di tremare, la tenda bianca perde i suoi riflessi ondulanti. Il paziente è guarito, ma è morto e persino imbalsamato. I soggetti in movimento (uomo che corre, cavallo che salta…) sembrano incongrui, come corpi estranei su un décor filmato in trasparenza. Disturbano la perfezione dell’immobilità. ‘Odio il movimento che sposta le righe…’, diceva Verlaine.
Integrare con un semplice copia/incolla le lacune dell’emulsione o eliminare i graffi del supporto può condurre alla soppressione completa dei segni del tempo: il tempo del film come quello dello spettatore, testimone angosciato dall’abolizione della durata, e degli effetti perversi di un elisir di eterna giovinezza. Eppure, il digitale permette anche di tenere in memoria le diverse tappe del lavoro compiuto: lo stato attuale del restauro di queste bande cronofotografiche non è forse definitivo, e il ‘pentimento’ resta possibile.
Il trasferimento su 35mm e la proiezione a 24 f/s implicano di ripetere più volte le bande e di moltiplicarne talvolta le immagini. In effetti, i quindici fotogrammi che le compongono rimarrebbero, senza questo allungamento, praticamente illeggibili per la nostra percezione. Qui risiede senza alcun dubbio il vero tradimento nei confronti di Marey: investire queste immagini del potere ipnotico generato dalla ripetizione dello stesso oggetto nel tempo artificialmente allungato. Se il soggetto effettua uno spostamento nello spazio (come il gatto che cammina o il cavallo nero al galoppo), ecco che sparisce a destra del quadro per riapparire subito a sinistra e ricominciare la sua breve avanzata. Il tempo non si ferma, slitta e balbetta. Se il soggetto rimane allo stesso posto (una mano che si apre e si chiude; Georges Demeny, con l’espressione di un sonnambulo, gli occhi chiusi, che ripete delle strane frasi come ‘Vous m’y poussez’ o ‘Le plus beau mur’), noi facciamo fatica a reperire la giunta tra l’ultima immagine della banda e la prima della sua ripetizione. Allora perdura la sensazione di una litania quasi incantatoria, e l’effetto di circolo, di chiusura del tempo su se stesso. Così, restituendo la concatenazione ‘naturalista’ del movimento, la proiezione in 35mm produce la magia di un tempo irreale e la fascinazione di un eterno ritorno.
Due delle tredici bande presentate sono nettamente più lunghe delle altre, e il movimento studiato sembra meno evidente. Questi due ‘Fucili cronofotografici’ si svolgono solo una volta, perfettamente leggibili a causa della loro lunghezza. L’uomo che raccoglie il suo cappello è libero, dopo questo gesto unico, di uscire dall’inquadratura e di andare dove gli pare. La finzione può ormai installarsi.”. (Claudine Kaufmann)