HERZOG BLAUBARTS BURG

Michael Powell

T. Ing.: Bluebeard’s Castle; Sog.: Dal Libretto Omonimo Dlbéla Balazs “A Kékszakallu Her- Ceg Vara” (1911), Messo In Opera Da Béla Bartók; F.: Hannes Staudinger; Mo.: Paula Dvorak; Scgf.: Gerd Krauss; Co.: Helga Plnnow-Stadelmann; Int.: Norman Foster (Barbablù), Ana Raquel Satre (Giuditta); Prod.: Norman Foster Productions 35mm. D.: 60′. 

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

Ricordo di aver visto questo film in una piccola sala del British Film Institute. Michael Powell aveva organizzato la proiezione per me. All’epoca rimasi colpito dal suo estremo rigore, dalla sua sobrietà insolitamente sontuosa e dalla sua grande bellezza visiva. Rivederlo a quarant’anni di distanza è un’esperienza ancora più intensa. La familiarità che ho acquisito nei confronti dei film di Powell fornisce altre chiavi di lettura, apre altri varchi attraverso i quali si può riversare l’immaginazione.
A un tratto, Bluebeard’s Castle appare come l’anello di congiunzione mancante tra The Tales of Hoffmann e Peeping Tom. Il film riunisce in sé l’incredibile creatività visiva, le surreali scenografie del primo e il rigore morale, il tono perentorio, ineluttabile e tuttavia profondamente comprensivo del secondo. Barbablù è il fratello gemello di Mark. Entrambi vivono in un universo fatto di morte e di desolazione, popolato dai terrificanti ricordi dei loro delitti e da sogni infranti. Fiori e nubi si tingono del colore del sangue, come le immagini filmate da Karl Boehm o i nastri magnetici sui quali egli ha registrato le urla delle sue vittime così come le proprie grida di terrore. In questo mondo funereo, le vittime sembrano desiderare il loro destino o addirittura metterlo in scena.
Bisogna riconoscere che l’opera di Bartók è uno dei capolavori del secolo scorso – insieme a Peter Grimes, Billy Budd e The Turn of the Screw di Britten. Il libretto di Béla Bálazs è splendido, con la sua straordinaria partitura capace di dar vita a una tensione drammatica quasi insostenibile senza ricorrere ad alcun effetto artificiale. E Powell ritrova questa potenza musicale nella propria regia, nei cambiamenti di asse, di luce, di angolazione della macchina da presa, nelle prospettive e nei punti di fuga indistinti. Judith si ritrova all’improvviso di fronte a Barbablù, mentre nella scena precedente egli si trovava nella parte opposta dei sotterranei… Sembra che i personaggi si muovano l’uno verso l’altro, ma a un tratto ci si rende conto che si inseguono o che si stanno allontanando tra loro.
Coadiuvato dal brillante Hein Heckroth, le cui sperimentazioni vanno di pari passo con i lavori di alcuni dei più grandi registi teatrali – Peter Brook, Strehler, Chéreau –, Powell crea su un unico set un dedalo tortuoso e imprevedibile – un labirinto mentale. La sensazione è quella di riuscire a penetrare nelle emozioni dei personaggi nello stesso modo in cui riusciamo a penetrare nella mente di David Niven in A Matter of Life and Death. E questo labirinto è perfettamente in sintonia con la musica di Bartók. «L’occhio ascolta», come diceva Paul Claudel. Cosa che Powell capisce e padroneggia in maniera assolutamente perfetta.
Un’altra cosa che mi colpisce in questo film, in cui i colori cupi e foschi degli sfondi e degli arredi scenici sono trafitti da bagliori dorati – come nella scena in cui Judith viene improvvisamente illuminata da una luce gialla come da un inatteso e purtroppo fugace raggio di sole – o violacei, o rossi come i fiori nell’acqua, è la sua straordinaria malinconia. È una malinconia che ritroviamo in molti film di Powell e Pressburger, da The Small Back Room a Hoffmann, da Red Shoes a Blimp e a Peeping Tom. Scaturisce dalle scenografie o dai personaggi, e dal rapporto di questi ultimi con il décor. L’imponente Norman Foster la esprime in modo meraviglioso sia nella recitazione che nel fraseggio musicale, nel modo in cui trattiene la voce. Negli ultimi minuti, quando la macchina da presa si allontana da Judith (interpretata con intensa passione dalla bellissima Ana Raquel Satre, che ricorda tante delle eroine di Powell), si ha l’impressione che egli si fonda fisicamente con il set, divenendone parte e trasformandosi in pietra. Florence Delay, nei suoi magnifici libri sui Cavalieri della Tavola Rotonda, ci ha fatto capire che la cosiddetta «malattia della malinconia» nel Medio Evo era sempre legata alla storia di un amore immenso, divorante, impossibile, infranto. Quell’amore tragico è lo stesso che popola le stanze di Bluebeard’s Castle.
Bertrand Tavernier

 

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