À VENDREDI, ROBINSON
F.: Daniel Zafer, Mitra Farahani, Fabrice Aragno. M.: Mitra Farahani, Fabrice Aragno, Yannick Kergoat. Int.: Jean-Luc Godard, Ebrahim Golestan. Prod.: Mitra Farahani con Fabrice Aragno, Hamidreza Pejman, Georges Schoucair per Écran noir productions, Casa Azul Films, Hamidreza Pejman, Schortcut Films. DCP. D.: 96’. Col.
Scheda Film
Alla base di questo ultimo film di Mitra Farahani c’è un dialogo a distanza, quello tra Ebrahim Golestan, un gigante del cinema e della letteratura iraniana (che tra pochi mesi festeggerà il suo 100° compleanno) e il regista franco-svizzero Jean-Luc Godard. Farahani, tra i documentaristi iraniani di maggior talento, riesce a mediare tra due mondi in apparenza inconciliabili creando un’opera epistolare unica. Il suo stile elegante e ibrido ci porta dall’incontro con semplici ombre – così ci appaiono i due artisti la prima volta che li vediamo – alle vite interiori di individui in carne e ossa, vulnerabili, sofferenti, premurosi, in perenne ricerca.
Frutto di un lavoro durato più di sette anni, À vendredi, Robinson va alla ricerca di punti di convergenza. I due artisti vivono ciascuno nella sua personale isola di solitudine ma sono connessi via internet. Godard, ancora interessato soprattutto alle immagini e al linguaggio, lancia le idee. Golestan, uomo d’espansione e di chiarezza, cerca di trovare un senso nella serie di rompicapi audiovisivi che riceve. Godard si comporta come se tutti sapessero tutto, e Golestan replica che non tutti sono ancora nati. Farahani estende alla forma stessa del film il concetto di ‘parallelismo’. E ci aggiunge qualcosa di suo, come quando vengono narrati brani scelti della vita di Beethoven, con l’accompagnamento della musica del compositore, per completare un ritratto composito della creatività al crepuscolo della vita.
Farahani tralascia misteriosamente le opere fondamentali dei due artisti, mostrando estratti dei loro film solo quando uno dei due li sta effettivamente guardando. Vediamo Golestan e sua moglie (altra figura centrale del film) mentre guardano JLG/JLG – autoportrait de décembre, e viene mostrato anche Hills of Marlik dello stesso Golestan. Ma non mancano altre citazioni, da Wittgenstein a Joyce, da Tolstoj a Goya, da Čechov a Johnny Guitar, da Puccini a Elias Canetti. Godard recita l’ultima frase di L’uomo ombra di Dashiell Hammett (“ma è tutto piuttosto insoddisfacente”), mettendo in primo piano un tema centrale del film, mentre la profonda ammirazione di Golestan per Saadi, il poeta persiano del XIII secolo, fa da forza motrice. Eppure, al di là della parola stampata e dell’immagine, il film trova alcune delle sue risposte nelle stanze ordinarie dei due uomini, nel ciclo calcolato delle loro vite, nel loro salire e scendere le scale. E poi c’è il parallelismo vita/morte che Farahani tenta di scongiurare conservando ogni banale pezzetto di vita che trova e riesce a tradurre in poesia.
Ehsan Khoshbakht
À vendredi, Robinson è una non corrispondenza, due parallele che non si sarebbero mai incrociate. Ebrahim Golestan, lo studioso, conosce molto bene l’opera di Jean-Luc Godard e capisce perfettamente ciò che sta accadendo. E tuttavia rifiuta consapevolmente di abbandonarsi al linguaggio di Godard. Gli resiste. Continua a opporgli il proprio ritmo, la propria argomentazione sviluppata su più pagine. Ma anche Jean-Luc Godard, vero filosofo dell’arte, rifiuta e resiste… E il film resiste a entrambi e a questo insuccesso. À vendredi, Robinson è un itinerario che non segue le indicazioni principali, che non conducono da nessuna parte, ma si nutre soprattutto di passaggi fuori dei sentieri battuti, di fughe fuori strada. Il film voleva essere “una raccolta quotidiana di pensieri” nella quale ciascuno dei due rivelasse una parte di sé nella propria solitudine. Ebrahim Golestan mostra una forma di saggezza dinanzi a questa necessità del destino umano. Jean-Luc Godard, invece, oscilla tra rivolta e malinconia. E così ogni Robinson resta infine sulla sua isola: “la mia solitudine riconosce la sua”.
Mitra Farahani