Un capolavoro del Neorealismo (e di umanità)

“Per me il neorealismo, come viene chiamato, non può essere altro che il trattamento della realtà sotto una forma lirica, però trasferita su un piano più alto”.

(Vittorio De Sica)

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Al termine della Seconda guerra mondiale l’Italia è un cumulo di macerie: macerie materiali provocate dalla guerra e macerie morali provocate dal fascismo. Gli studi cinematografici di Cinecittà sono il quartier generale dell’esercito americano, la pellicola si trova solo al mercato nero e il cinema italiano, anche per riscattarsi degli errori compiuti durante il fascismo, “decide” di iniziare a raccontare un’Italia diversa da quella fino ad allora rappresentata. È una sorta di rivalsa morale degli autori che avevano lavorato nell’industria cinematografica fascista. È una specie di dichiarazione di intenti della cultura e del cinema che vogliono voltare pagina, che desiderano immergersi nella società italiana e raccontarla in un gigantesco affresco collettivo: Neo-Realismo (“Realismo” fa riferimento a un filone del cinema muto dei decenni precedenti che aveva la vocazione – spesso documentaria – di catturare la realtà del mondo e le sue molteplici diversità).

Raccontare la società italiana degli anni dopo la guerra vuol dire narrare le disperazioni, le rinunce e i sacrifici subiti, ma significa anche mettere su pellicola gli sforzi e la volontà di costruire una società e un mondo migliore.

In Ladri di biciclette, capolavoro scritto da Vittorio De Sica insieme allo sceneggiatore e poeta Cesare Zavattini, un fatto insignificante e banale come il vagare di un povero operaio e di suo figlio alla ricerca di una bicicletta rubata diviene metonimicamente il ritratto di una società fatta a pezzi dalla guerra, afflitta dalla disoccupazione. Una società in cui, gli ultimi, i più poveri, devono farsi la guerra per sopravvivere. Vittorio De Sica estrae letteralmente l’attacchino Antonio Ricci dalla folla (quella che all’inizio del film si accalca ai piedi di una scala in attesa di un posto di lavoro). Da lì in poi lo segue, lo pedina con la macchina da presa e quindi permette allo spettatore di seguirlo durante lo svolgersi della vicenda che lo vede protagonista. Infine lo abbandona nuovamente alla folla, all’anonimato, e la storia di quell’uno diventa la storia di tanti, di tutti.

“Perché pescare avventure straordinarie quando ciò che passa sotto i nostri occhi e che succede ai più sprovveduti di noi è così pieno di una reale angoscia? La letteratura ha scoperto da tempo questa dimensione moderna che puntualizza le minime cose, gli stati d’animo considerati troppo comuni. Il cinema ha nella macchina da presa il mezzo più adatto per captarla. La sua sensibilità è di questa natura, e io stesso intendo così il tanto dibattuto realismo. Il quale non può essere, a parer mio, un semplice documento.
Se il ridicolo vi è in questa storia, è il ridicolo delle contraddizioni sociali su cui la società chiude un occhio; è il ridicolo dell’incomprensione per la quale è molto difficile che la verità e il bene si facciano strada.
Alla sofferenza degli umili il mio film è dedicato”.

(Vittorio De Sica, “Abbiamo domandato a De Sica perché fa un film da Ladri di biciclette“, La fiera letteraria, 6 febbraio 1948)

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