LE VOYAGE IMAGINAIRE
Scen., M.: René Clair. F.: Amédée Morrin, Jimmy Berliet. Scgf.: Robert Gys. Ass. regia: Georges Lacombe, Claude Autant-Lara. Int.: Jean Börlin (Jean), Dolly Davis (Lucie), Albert Préjean (Albert), Jim Gérald (Auguste), Paul Ollivier (il direttore della banca), Maurice Schutz (il chiromante), Marguerite Madys (la fata buona Urgel), Yvonne Legeay (la fata cattiva Sylvaine). Prod.: Edmond Ratisbonne e Rolf de Maré per Les Films Georges Loureau DCP. D.: 75’. Bn
Scheda Film
Quando guardo un film la prima cosa che faccio è collocarlo nella storia del cinema. Le Voyage imaginaire si situa a trent’anni dalle origini e a cent’anni dal presente. È questa la prima cosa che mi viene in mente.
Tutti gli attori sono morti. Osserviamo fantasmi che si muovono nell’inquadratura, per lo più dimenticati. Sicuramente il mio senso del macabro mi spinge a un’interpretazione personale del film, ma è esattamente questo il punto dell’operazione. Questa sensazione accentua inoltre la dimensione del sogno, che è il soggetto della storia.
Gli attori attraversano l’inquadratura lateralmente (come succedeva nella maggior parte dei primi film) ma anche in profondità, muovendosi verso la macchina da presa (tecnica che sarebbe arrivata più tardi).
Ma la cosa più importante, e più toccante, è l’espressione degli attori e in particolare di Jean Börlin (quando balla). Dai loro volti e dalle loro espressioni si capisce che stanno prendendo parte a una nuova avventura, magica ed emozionante. L’accuratezza della recitazione passa in secondo piano rispetto al senso di stupore. È la mia interpretazione, ma è ciò che sento quando scopro questo viaggio. Il compito degli attori è raccontare la storia, non fingere di essere i personaggi che stanno interpretando. Del resto, non stanno recitando, sono semplicemente lì.
Ho la sensazione di vedere bambini che usano le cineprese dei genitori in loro assenza, e questo mi riempie di gioia. All’improvviso ci ritroviamo all’aperto, in scenari complessi con scale, architetture e luce naturale, e abbiamo compiuto un balzo di vent’anni nel linguaggio cinematografico.
Siamo immersi nel reale.
Il realismo accentua il passaggio del tempo: è molto vicino a ciò che viviamo, e la distanza temporale si avverte con forza ancora maggiore.
La narrazione è geometrica, moderna, ingegnosa, e lascia presagire il regista virtuoso e innovatore che René Clair sarebbe diventato.
Jean, con i suoi sentimenti per la segretaria simboleggiati dal mazzolino di fiori che passa di mano in mano, ha lo sguardo triste. Si percepisce la sua amarezza, ma è un’amarezza composta, non plateale. Sarebbe interessante poter chiedere agli spettatori dell’epoca come vivevano questa storia. Ma non sono più qui per raccontarcelo.
Michel Gondry