THE HOLDOVERS
Sogg. e Scen.: David Hemingson. F.: Eigil Bryld. M.: Kevin Tent. Scgf.: Ryan Warren Smith. Mus.: Mark Orton. Int.: Paul Giamatti, Dominic Sessa, Da’Vine Joy Randolph, Carrie Preston. Prod.: CAA Media Finance. DCP. D.: 113′. Col.
Scheda Film
La scuola è magnifica, i ragazzi viziati, il professore (Paul Giamatti) un misantropo strabico o forse sibila guercio che insulti mentre corregge i temi di quei rampolli upper class e li carica di compiti anche per le vacanze. Senza sapere che dopo quel Natale 1970 nulla sarà come prima. Né per lui, né per l’unico studente rimasto a passare le feste in quel pomposo istituto del New England (Dominic Sessa, esordiente rivelazione), né per la corpulenta cuoca che unisce alle loro solitudini la sua (Da’Vine Joy Randolph). In un percorso di progressivo avvicinamento e reciproco arricchimento. Riassunto così The Holdovers può sembrare un concentrato di cliché. Invece è uno dei più bei film Usa visti di recente, un omaggio grondante affetto alla New Hollywood anni Settanta, con un occhio di riguardo per Hal Ashby e L’ultima corvée, di cui riprende la struttura. Nonché un esempio raro di sguardo adulto in un cinema sempre più formattato e infantilizzato. Chi ricorda Sideways sa che l’accoppiata Giamatti/Payne fa scintille. Nessuno meglio di questo regista di origini greche, classe 1961, sa infatti unire il riso e la commozione, il comico e il triviale, l’intimo e l’epocale. Non a caso l’autore di Nebraska, A proposito di Schmidt e Paradiso amaro è tra i pochissimi cui è concesso il final cut, ovvero il controllo sul montaggio. E anche The Holdovers, col suo taglio classico e il suo impagabile gusto dei dettagli, non perde un colpo. Anche perché Payne, sorretto dall’oliatissima sceneggiatura di David Hemingson (al primo film dopo 30 anni di serie tv), scopre le carte poco alla volta. Dando alle miserie, alle bellezze, alle goffaggini e ai segreti dei suoi protagonisti una luce di verità in ogni occasione, anche minima: come facevano i suoi predecessori anni Settanta con i loro personaggi. Piccoli grandi uomini, come il protagonista del film di Arthur Penn che Giamatti e Sessa vanno a vedere in una scena decisiva. Il mix inconfondibile di affetto e crudeltà in cui consisteva il “Payne touch” si è forse addolcito col tempo. Ma non è detto sia un male.
Fabio Ferzetti
Dopo aver visto Merlusse di Marcel Pagnol, non sono più riuscito a togliermelo dalla testa. Tempo dopo ho letto un pilota scritto da David Hemingson ambientato in un collegio maschile ed era meraviglioso. Ho chiamato David e ho subito dovuto chiarire che non avevo intenzione di lavorare su quel progetto, ma volevo sapere se avrebbe preso in considerazione l’ipotesi di scrivere la sceneggiatura di un lungometraggio basato su un’idea diversa. […] Sono sempre molto focalizzato su quelle che mi auguro possano essere considerate storie dal forte elemento umano, piuttosto che episodi, convenzioni o artifici. Mi piace avere un protagonista le cui vicende siano più simili alla vita reale che a quella immaginata sui film. Peraltro, al college ho studiato storia e ancora oggi leggo molta saggistica. Oggi ho la convinzione che poter fare film in costume è la cosa più vicina al viaggiare nel tempo: è stata un’esperienza adorabile.
Alexander Payne