Federico Fellini e la scoperta del cinema
Federico Fellini nel 1983 affermò che agli albori della sua carriera non pensava assolutamente di diventare un regista. Fellini, infatti, iniziò come collaboratore e illustratore per le riviste di taglio umoristico e satirico ‘420’ di Firenze e il ‘Marc’Aurelio’ di Roma.
In seguito, fu l’incontro con Roberto Rossellini e la collaborazione alla sceneggiatura di Roma città aperta (1945) che lo avvicinarono al cinema e segnarono una svolta decisiva per la sua carriera. I dieci anni successivi furono di grande importanza per il futuro regista: lavorando come sceneggiatore insieme a Roberto Rossellini, Alberto Lattuada, Pietro Germi, e molti altri, Fellini venne conquistato dalla “festa mobile” dei set cinematografici e si sentì sempre più in sintonia con il suo lavoro di scrittore per il cinema. Il primo ad accorgersi di questa “armonia cinematografica” fu Alberto Lattuada, il quale invitò Fellini a dirigere insieme a lui Luci del varietà (1951). Anche dopo questa prima collaborazione registica con Lattuada, Fellini rimase convinto che avrebbe soggiornato chissà ancora per quanto tempo in quella “zona limbale che è la sceneggiatura”; un territorio, una dimensione che in quel momento sembrava appartenergli di più rispetto al lavoro da regista. Però, non fu esattamente così: il debutto di Federico Fellini al mondo della regia, infatti, risale al 1952: nel settembre di quell’anno venne presentato alla Mostra del cinema di Venezia l’esordio cinematografico di Federico Fellini.
L’idea del film nacque da uno scritto di Michelangelo Antonioni, al tempo anche lui interessato all’esplorazione della dimensione fantastica e onirica dei fotoromanzi e dei fumetti, che si era concretizzata nel breve documentario a soggetto del 1949 L’amorosa menzogna. Il primo lungometraggio di Fellini introduce già la peculiare poetica dell’autore e presenta una serie di elementi tematici e stilistici che ritorneranno spesso nei suoi film, così come in tanta produzione cinematografica dell’Italia del dopoguerra. Per esempio, Ivan Cavalli, il neosposo, è un borghese provinciale che mette il nome famigliare, lo stato sociale e le sue proprietà prima di tutto il resto, facendosi portavoce delle preoccupazioni dei conservatori italiani durante la ricostruzione economica, sociale e culturale degli anni ’50. Fellini attraverso la figura di Ivan ridicolizza il rampante conservatorismo dello stato italiano di quegli anni: questa critica della società rappresenta uno degli aspetti che caratterizzeranno l’avventura cinematografica del regista riminese, in quel momento solo agli inizi.
Per Lo sceicco bianco, Fellini si avvalse delle musiche del compositore Nino Rota, con cui instaurò poi una lunga ed entusiasta collaborazione.
“E poi bisognerebbe parlare degli interpreti: soltanto Alberto Sordi, la sua caricaturale corpulenza, meriterebbe un lungo discorso; è comunque il miglior Sordi che finora si sia visto” (Vittorio Bonicelli, ‘Tempo’, n. 42, 1952).
Nonostante le premesse, all’epoca della sua uscita in sala, il film non fu un successo al box office né fu particolarmente apprezzato dalla critica cinematografica, anche se a posteriori venne considerato innovativo per il suo tempo.