Un’estetica postmoderna

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Come dichiarato dalla stessa regista, l’estetica gioca un ruolo fondamentale in Buio e per questo risulta curatissima in ogni dettaglio. 

La luce livida e desaturata di tanto cinema italiano contemporaneo lascia il posto ad un uso del colore molto marcato. “I colori sono salvifici” – spiega Emanuela Rossi citando Goethe – “e questa è una storia in cui le protagoniste cercano salvezza”.

Il film è poi tutto giocato sul dualismo tra interno ed esterno e a questo contribuiscono in primis le scelte scenografiche e dei costumi. L’arredamento della casa è caratterizzato da una stratificazione di stili per cui accanto alle candele si trovano i neon, e il giradischi fa risuonare le note di Reality da Il tempo delle mele. Lo stesso vale per gli abiti: le ragazze indossano abiti virginali alla Wendy (di Peter Pan) nel tempo dedicato ai doveri domestici, fanno ginnastica con indosso tutine acetate anni Ottanta e giocano a prendere il sole in costume da bagno e cuffietta a fiori anni Sessanta. 

Il tempo all’interno è sospeso in funzione di quella conservazione ossessiva dello status quo che il padre persegue, fuori intanto il mondo va avanti, le ragazze e i ragazzi ascoltano rap e indossano felpe, elementi che non tardano ad insinuarsi in casa nel momento in cui Stella, la sorella maggiore, riesce ad aprire una breccia. 

“C’è un’estetica un po’ fashion che pervade tutto il film. C’è un motivo. Nella mia strana biografia – racconta la regista – si nasconde un segreto. Dopo il Dams volevo andare a Roma a fare cinema ma non ne ho avuto il coraggio. Così sono andata a Milano dove ho lavorato dieci anni come giornalista nei magazines femminili: Marie Claire, Glamour, Casa Vogue, … Così, le stratificazioni di stili che si vedono nel film servono a capire la storia di questa famiglia, ma sono anche una sorta di mia storia vestimentaria, seguono l’evoluzione del mio gusto.”

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