STRAIGHT SHOOTING

Jack Ford

S. e Sc.: George Hively. F.: George Scott. In.: Harry Carey (Cheyenne Harry), Molly Malone (Joan Sims), Duke Lee (Thunder Flint), Vester Pegg (Fremont), Hoot Gibson (Danny Morgan), George Barrell (Sweetwater Sims), Ted Brooks (Ted Sims), Milt Brown (Black-Eyed Pete). P.: Butterfly-Universal.

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

Del primo lungometraggio di John Ford si conosceva fino ad oggi soltanto una copia cecoslovacca, con una modesta definizione dell’immagine, in bianco e nero e con didascalie ceche. Due anni fa il Nederlands Filmmuseum recuperava in Olanda il nitrato cecoslovacco a colori, che conteneva imbibizioni e tre splendide scene virate, ed avviava un progetto di restauro. Grazie alla collaborazione con la George Eastman House, che possedeva una copia 16mm in versione americana del film, si potevano ricostruire le didascalie originali.
La Cineteca di Bologna si è occupata del restauro a colori presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata.
(…) Straight Shooting testimonia un momento di transizione nella storia del paese, e nelle vite dei personaggi; e come molti Ford successivi, fa prevalere il “passaggio” sulla “permanenza”.
John – o Jack – Ford aveva 22 anni nel 1917, figlio di un immigrante di Portland, agricoltore, fabbricante di sigari e poi proprietario di saloon. Harry Carey, figlio di un giudice della Corte Suprema di New York, ne aveva trentanove. Ford era irruente, ambizioso, piuttosto avventato: i suoi capi, alla Universal, avevano appena scoperto che era un genio. Carey, più anziano, solo un anno prima era stato la star più brillante dello studio, ma ora la sua carriera sembrava avviata ad un rapido declino. Erano entrambi uomini sul metro e ottanta e sugli ottanta chili di peso; amavano arrivare sul set a cavallo, dormire nei sacchi a pelo e inventare le loro storie mano a mano che procedevano col lavoro. Questo era il loro terzo film insieme (il sesto da regista per Ford, per Carey qualcosa come il duecentesimo), e sebbene, come gli altri, anche Straight Shooting dovesse essere solo un two-reeler, non c’è dubbio che poterlo girare fu per entrambi una sorpresa. La loro prima collaborazione, secondo Ford, ebbe inizio così: “Avevano bisogno di qualcuno per dirigere un film da pochi soldi e di poca importanza con Harry Carey, il cui contratto stava per scadere. A quel tempo circolavano parecchi divi western – Mix, e Hart, e Buck Jones – e anche alla Universal stavano addestrando diversi attori, perché diventassero i futuri protagonisti del Western. Dunque sapevamo che in ogni caso saremmo stati scaricati dopo un paio di settimane, e allora decidemmo di prenderli un po’ in giro – non il Western, ma i suoi primattori – e facemmo di Carey una sorta di perdigiorno, un vagabondo a cavallo, anziché il grande ed audace eroe pistolero. L’idea fu al cinquanta per cento di Carey, e al cinquanta per cento mia”.
In quell’occasione – solo poche settimane prima – Ford e Carey avevano fatto un film talmente buono (The Soul Herder) che venne distribuito come un three-reeler invece che un two, e con una speciale promozione pubblicitaria. Questa volta Straight Shooting, inizialmente pensato per due reels, gonfiò il proprio metraggio fino a cinque. Fortunatamente, prima che i perplessi capi della Universal provvedessero a riportare il film alla lunghezza prevista, lo stesso presidente Carl Laemmle intervenne in suo favore. (…) (Tag Gallagher)
(…) I colori, in Straight Shooting, sono distribuiti secondo la legge dell’economia e della semplicità. Giallo per gli esterni e gli interni giorno (circa due terzi dei cinquantacinque minuti complessivi), azzurro per esterni ed interni notte (la più concentrata e convulsa parte finale), un arancio fondo e molto suggestivo per i soli interni del saloon. La tecnica usata è quella dell’imbibizione. Ci si attiene ai codici convenzionali del colore, e ad una ripartizione più elementare rispetto a molti altri film dello stesso anno: che se non altro procedono spesso ad una distinzione dell’esterno dall’interno, utilizzando tonalità decisamente diverse di una stessa tinta.
Si direbbe, tuttavia, che l’estrema semplificazione serva a fornire il massimo rilievo a due momenti “straordinari”. Straordinari per la parabola narrativa, di cui costituiscono il doppio climax, le emergenze drammatiche – rispettivamente – fondativa e risolutiva. E straordinari per l’effetto visivo sortito da un trattamento (di per sé stesso assolutamente usuale) della pellicola.
Straight shooting è la storia di una costruzione morale, è l’annuncio di un destino che poi avrà modo di dispiegarsi in molti film a venire. Cheyenne Harry è un vagabondo che può farsi beffe della legge (precisa e crudele la scena dell’umiliazione dello sceriffo, al saloon) e affittare la pistola al miglior offerente. I rancheri lo cercano, perché li aiuti a liberarsi della tenace famiglia di coloni che si oppone al loro progetto espansionistico. I farmers verranno presi per sete, poiché si impedirà loro l’accesso alla sorgente: e morire di sete, nel cinema di Ford, è insieme l’immagine della precarietà dell’Eden e una sorta di incubo ricorrente (ritorna nel film immediatamente successivo, The Secret Man ancora con Harry Carey, e costituirà il nerbo ossessivo di Marked Men e del suo remake, The Three Godfathers). Dunque è proprio mentre ruba un secchio d’acqua che Ted, il figlio del vecchio Sims, viene ucciso a tradimento da uno dei sicari di Flint. Ora a Cheyenne Harry toccherebbe di disfarsi del resto della famiglia. Va, e li trova raccolti sulla tomba del ragazzo morto: un padre che è ad un tempo l’Abramo di Isacco (con le braccia al cielo: “avete ucciso il mio unico figlio!”) e un Abramo Lincoln cui fosse stato concesso di incanutire, contrazione di storia biblica e storia patria; una figlia di silhouette griffithiana; il fidanzato di lei, che pure è compromesso coi banditi. Harry si fa avanti, la tesa del cappello gli nasconde gli occhi nell’ombra. Quando la solleva, finalmente, vede: una deposizione, una trinità, l’orrore della morte, la santità della famiglia. Nel riverbero del sole, oltre il velo delle proprie lacrime, è come Paolo di Tarso, accecato dalla verità: e l’immagine s’incendia, la soggettiva di Harry, virata in un ambra vivo e lucente, è un paesaggio al calor bianco, scorticato, senza ombre. Il passaggio improvviso dall’imbibizione al viraggio produce quella grana onirica, quella fluttuazione cromatica a cui il cinema ricorrerà (in modi diversi) ogni volta che vorrà rappresentare uno sguardo capace di superare la durezza delle superfici per sprofondare nel senso segreto delle cose: fino alla danza di forme accese e disfatte che costituisce l’estrema esperienza dell’Uomo dalla vista ai raggi X.
La vera sorpresa, e in qualche misura il vero problema, di questo Straight shooting colorato è la sua seconda immagine virata. La “visione” della sepoltura ha trasformato Cheyenne Harry. La sua vita non sarà più la stessa, ora che “qualcosa gli ha aperto gli occhi”: si schiera coi coloni e promette che “smetterà di uccidere”. Pure, una giornata e alcuni minuti più tardi, lo troviamo in uno spazio desertico e svuotato, accanto ad un edificio di caligaristica instabilità (indice antinaturalista), con il fucile ancora fumante e lo sguardo fisso sul corpo del ranchero Fremont, che si affloscia come un sacco. E l’inquadratura si accende per un nuovo viraggio, meno intenso del primo, ugualmente capace di produrre un momentaneo deragliamento nella linearità visiva. Harry sospira, si ritrae dall’immagine: immagine che non è, come la prima volta, una soggettiva in senso stretto, ma certo della soggettiva ha la qualità e il funzionamento psicologico – come se Harry vedesse se stesso nuovamente assassino, sia pure per le più oneste ragioni, e dunque inevitabilmente legato al destino scritto dalla propria pistola. (…) (Paola Cristalli, Cinegrafie , n.6, novembre 1993)

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Il restauro è stato co-finanziato dall’Istituto Regionale per i Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna.