GUIDA AL CINEMA RITROVATO 2023

Il mondo del Cinema Ritrovato non è troppo dissimile da quello di La carrozza d’oro (Le Carrosse d’or, 1952) di Jean Renoir, che sarà proiettato in questa edizione. Come per la festante e coloratissima ode di Renoir al mondo del palcoscenico e alla vita, è per noi impossibile separare l’arte (nel nostro caso il cinema) dalle persone che l’hanno creata (alcune saranno con noi a Bologna), da quelle che l’hanno preservata e restaurata (molte saranno con noi a Bologna), e infine da quelle che la guardano, ne discutono e portano con sé questi film nelle loro vite quotidiane – insomma, voi! È dal vostro piacere che il festival trae la sua ispirazione. Che le ruote della carrozza d’oro riprendano a girare: vi diamo un cordiale benvenuto alla nostra festa del cinema!

La carrozza vi condurrà in un viaggio di nove giorni nei paesaggi dei sentimenti umani più reconditi e attraverso vasti territori geografici, in un fluido gioco di scambi da cui nasce l’interazione più preziosa: la macchina dell’empatia. All’interno di questo meccanismo, il grande e il piccolo, il celebre e il dimenticato hanno uguale valore. La selezione del festival comprende film sulla costruzione di nazioni e civiltà (The Covered Wagon, 1923), ma anche sulla fabbricazione dei fiammiferi (Zündhölzer, 1960). Nell’orizzonte della celluloide, dove il mondo prende forma proprio sotto i nostri occhi, il macrocosmo e il microcosmo hanno lo stesso peso.

Le prime immagini del Cinema Ritrovato appaiono nelle capsule del tempo del 1903, dove l’integrità della creazione di immagini trasforma gli eventi più insignificanti in momenti di stupore e di rinascita. Le ombre e le luci tremule diventano la storia stessa, come in Ombre ammonitrici (Schatten, Arthur Robison, 1923). L’effetto è poi portato al limite, come nel noir in 3D La mia legge (I, the Jury, 1953) dove il gioco d’ombre si fa significato grazie al Rembrandt dei direttori della fotografia, John Alton: è lui a prendere il sopravvento, a eclissare la storia, l’intreccio e i personaggi dicendoci di dimenticarli, per poi trascinarci nella zona onirica dei neri taglienti e delle inquadrature oblique.

Le forze gravitazionali di Bologna

Nel sistema solare del Cinema Ritrovato la forza di gravità non è esercitata da una sola stella, ma da molte. Gli ‘idoli in carne e ossa’ continuano a risplendere molto tempo dopo la loro scomparsa e non sono semplicemente attori famosi o emblematici, ma incarnazione di milioni di identità proiettate in una sola. L’atteso omaggio ad Anna Magnani, dea suprema dello schermo, si concretizza così in una folgorante serie di film che restituisce l’essenza del suo bruciante carisma e delle sue sbalorditive transizioni dal neorealismo alle commedie e ai drammi intimi. L’ampia selezione di Emiliano Morreale è un’indagine sul personaggio che ha affascinato il mondo e definito l’italianità molto prima di Sophia Loren.

Ed è solo l’inizio, perché quest’anno l’elenco delle star è interminabile: Audrey Hepburn, Burt Lancaster, Totò, Marcello Mastroianni, Montgomery Clift, Deborah Kerr, Ivan Mozžuchin, Brigitte Bardot, Spencer Tracy, Kazuo Hasegawa, Ingrid Bergman, Gregory Peck, James Dean, Susan Taslimi (“l’Anna Magnani iraniana”), John Wayne, Barbara Stanwyck, Gary Cooper, Lino Ventura, Lyda Borelli, Tyrone Power e Jean-Paul Belmondo.

Molto tempo fa, ma non molto lontano

Quest’anno la sezione Cento anni fa è stata affidata al curatore Oliver Hanley, la cui fantasiosa rivisitazione del 1923 attraverso il cinema ha portato a sette ‘capitoli’ onnicomprensivi e d’ampio respiro che rivisitano con uno sguardo nuovo i tesori, le curiosità e le stranezze di quell’anno. Chi non vorrebbe vedere un film il cui regista si chiama Ferenc Futurista, autore del cecoslovacco Za oponou smrti (1923)? Un nome perfetto, da inventore del cinema.

Vediamo grandi nomi – Ėjzenštejn ed Epstein – compiere il loro primo o secondo passo, stabile e misurato, verso la genialità e la maestria. Man mano che il cinema matura, la divergenza degli stili mette in luce una gamma vertiginosa di possibilità, dal saggio satirico al collettivismo espressionista e all’impressionismo femminista. Nel mezzo ci sono film epici, western, commedie e melodrammi solidi e sofisticati come quelli che domineranno gli schermi nei decenni successivi.

Non intendiamo lasciare i muti in silenzio. L’accompagnamento musicale di 175 titoli muti (alcuni dei quali peraltro non possiedono un titolo) è un compito immane, ma grazie ai musicisti di eccezionale talento che fanno parte della nostra squadra siamo certi che questo sarà anche una sorta di festival musicale. Potete recarvi in Sala Mastroianni per un accompagnamento intimo al pianoforte, con o senza percussioni.

In piazzetta Pasolini le proiezioni con la lanterna al carbone sono accompagnate da ensemble un po’ più grandi. E infine, in piazza Maggiore, due capolavori del 1925 – Il ventaglio di Lady Windermere (Lady Windermere’s Fan) di Ernst Lubitsch e Stella Dallas di Henry King – saranno un piacere per gli occhi e per le orecchie grazie ai nuovi restauri e alle nuove partiture eseguite da un’orchestra a pieno organico.

I mari aperti del cinema

Il nome di Albert Samama Chikli è stato dapprima un sommesso sussurro. Oggi è un canto compiuto, grazie al recente avvio di un progetto della Cineteca di Bologna volto   a preservare l’opera del pioniere tunisino del cinema e della fotografia. Quest’anno esploriamo i suoi lavori non fiction e d’ampia diffusione realizzati tra il 1905 e il 1915, ricordando che si tratta di una figura tutt’altro che marginale, di un nome degno di figurare accanto a quelli dei pionieri riconosciuti del cinema.

I suoi film non saranno la nostra sola tappa in Africa. La polvere e le incrostazioni del tempo sono stati rimossi da altri capolavori del world cinema che compongono la sezione Cinemalibero e ci conducono in un viaggio ricco ed esaltante dalle sponde dell’Oceano Atlantico in Senegal a quelle del Mar Caspio in Iran, con qualche inatteso scalo nel mondo arabo.

In Senegal, l’aspra critica rivolta da Ousmane Sembène alle forze colonialiste delle potenze cristiane e islamiche e al loro impatto devastante sulle comunità subsahariane in Ceddo (1977), recentemente restaurato, ribadisce l’incisivo punto di vista del regista e la sua complessa lettura del colonialismo.

L’atteso restauro di Gli ingannati (Al-Makhdu’un, 1972) del regista egiziano Tewfik Saleh dovrebbe far luce sul cinema siriano, tra i meno conosciuti del Medio Oriente. Il film, su tre profughi palestinesi alla ricerca di una vita migliore, è emblematico del cinema panarabo e degli affascinanti scambi tra nazioni arabe negli anni Settanta.

Il viaggio vira rapidamente a nordest per concludersi con due capolavori misteriosi e cerimoniali dell’iraniano Bahram Beyzaie, Gharibeh va meh (1974) e Cherike-ye Tara (1979), che offrono una prospettiva femminista sui riti secolari di una terra patriarcale.

Dall’ombra al desiderio

Le retrospettive sui registi rimangono uno dei metodi più popolari di presentare i film a Bologna. Quest’anno abbiamo due traiettorie parallele e per molti versi simili, con filmografie che spaziano dal muto al CinemaScope, anche se i registi in questione lavorarono a migliaia di chilometri di distanza l’uno dall’altro e in contesti molto diversi. Ciò che accomuna i film di Rouben Mamoulian e Teinosuke Kinugasa è una spinta irrequieta a innovare la narrazione e la forma, una sete di sperimentazione in un ampio repertorio di generi popolari. Entrambi i registi si occupano di adattamenti letterari, di film sulle arti dello spettacolo, e nei film in costume riescono a compiere meraviglie. Mentre l’opera di Mamoulian è relativamente nota, i film di Kinugasa sono stati poco esplorati al di fuori del Giappone. Le retrospettive gemelle mettono  in luce la facilità con cui i due registi passarono dal muto al sonoro, da un genere all’altro, sempre conservando una forte impronta stilistica che dovrebbe fare di queste rassegne monografiche due delle storie più essenziali che abbiamo da raccontare quest’anno.

Tutta la bellezza e il dolore

Mamoulian aveva origini  armene.  Lavorò  in  vari  paesi prima di arrivare in America. La circolazione del talento, per scelta o per necessità, è un tema centrale dell’edizione di quest’anno. Il russo Fëdor Ocep girò Amok (1934) a Parigi mentre Renoir dovette lasciarsi alle spalle il lavoro e la Francia per diventare un assoluto outsider a Hollywood, dove trascorse un periodo di difficile adattamento e quasi di rifiuto su cui ci soffermeremo proiettando La donna sulla spiaggia (The Woman on the Beach, 1947).

Diversamente da Renoir, Hitchcock fu accolto a braccia aperte da Hollywood, dove fu attivo per quattro decenni, periodo intensamente creativo al quale risale Io ti salverò (Spellbound, 1945), il suo ottavo film americano, proiettato al festival in una nuova versione restaurata. Dopo la partenza di Hitchcock dall’Inghilterra toccò al duo composto da Michael Powell ed Emeric Pressburger (un ebreo ungherese giunto a Londra nel 1935 con lo status di apolide) colmare quel vuoto con le loro fantasie intensamente erotiche su territori inesplorati della mente. Una nuova copia di Narciso nero (Black Narcissus, 1947), che verrà proiettata per la prima volta in piazza Maggiore, offre un esempio della loro straordinaria poesia  in uno splendido Technicolor. Tuttavia il cinema britannico prima delle glorie degli anni Quaranta rimane un territorio poco esplorato, e un omaggio alla carriera solista di Powell prima del fatidico incontro con Pressburger ci condurrà in un viaggio incredibilmente ricco e divertente nella vita britannica degli anni Trenta.

L’anno scorso, la rassegna di Lukas Foerster sui film musicali tedeschi dei primi anni Trenta ha dissipato lo stereotipo secondo cui i tedeschi non sarebbero nel loro elemento quando si tratta di girare commedie. Quest’anno il curatore offre una nuova prospettiva seguendo la triste storia dei creatori di quei film in una fase successiva della loro carriera. Segnati dall’esilio in paesi vicini – Austria, Ungheria e Cecoslovacchia –, i loro film sono dichiarazioni d’amore “ai vantaggi dell’impertinenza e ai piaceri della vita notturna, a base di jazz e alcol”, per citare Lukas. Ci saranno altre risate, altri momenti di danza gioiosa e irrefrenabile, questa volta con un pizzico di malinconia, sapendo che presto questi grandi talenti verranno spinti ancora più lontano, e che l’aggressivo espansionismo della Germania nazista calpesterà vite e carriere. Il berline-se Hermann Kosterlitz fu così costretto ad andare prima in Austria e poi a Hollywood, dove lavorò con lo pseudonimo di Henry Koster. Il classico noir americano Quinto non ammazzare! (The Suspect, 1945) era nelle sale quando Dresda,  la città natale del suo autore, l’ebreo tedesco in esilio Robert Siodmak, veniva ridotta in cenere dai bombardamenti alleati. Il film trasuda paura – quando il fluire della vita è minacciato da colpi mortali – ma anche integrità, nel suo riconoscere l’oscurità che ci abita.

Scie di desolazione

Con l’invasione dell’Ucraina e il tragico protrarsi del conflitto, entrato nel suo secondo anno, le immagini che ritraggono la cieca atrocità e la carneficina della guerra sono più significative che mai. La croce di ferro (Cross of Iron, 1977), il sardonico e brutale rifiuto opposto da Sam Peckinpah alla follia della guerra, fu giudicato troppo tetro per la sua epoca ma non impedì a Orson Welles di definirlo, nel suo telegramma al regista, il miglior film contro la guerra che avesse mai visto. Ma il messaggio pacifista più struggente tra i film di quest’anno è quello di Larpa birmana (Biruma no tategoto, 1956) di Kon Ichikawa, la cui condanna profondamente umanista del massacro è un’opera d’assoluto lirismo.

La scia di desolazione lasciata dalla guerra sulla terra e sulle persone è resa in modo indimenticabile in una serie di film svizzeri che saranno proiettati in questa edizione. Il programma di Frédéric Maire si incentra su una pionieristica società di produzione svizzera, la Praesens-Film – ancora attiva, e al suo centesimo anno di vita – che all’epoca produsse opere di Hans Richter, Walter Ruttmann, Bertolt Brecht e Fred Zinnemann. La rassegna mette in luce la collaborazione tra la società e il regista Leopold Lindtberg in una serie di titoli controversi ed epocali che oggi, va detto, acquisiscono nuovo significato. L’esempio supremo è L’ultima speranza (Die letzte Chance, 1945), toccante storia di rifugiati in Svizzera in tempo di guerra.

Il filone dei film contro la guerra continua con Paura e desiderio (Fear and Desire, 1952) di Stanley Kubrick. Forse conoscete bene il film, ma probabilmente non nella versione che vi mostreremo quest’anno.

Minuti perduti, ore ritrovate

In programma ci sono alcuni film che per anni non è stato possibile vedere nel modo in cui erano stati inizialmente concepiti. Ci riferiamo a scene mancanti, a montaggi alternativi, a versioni accorciate e, in alcuni casi, a classici censurati. Quest’anno presentiamo alcuni di quei minuti scomparsi, sepolti e perduti della storia del cinema che sono stati riportati in vita. Il primo lungometraggio di Kubrick dura ora dieci minuti in più rispetto alla versione che forse già conoscete, ed è così che fu mostrato alla Mostra di Venezia del 1952. Amori di mezzo secolo (1954), il film a episodi diretto tra gli altri da Roberto Rossellini e Antonio Pietrangeli, dura adesso diciotto minuti in più rispetto alle versioni preesistenti, essendo stati ripristinati il montaggio e la struttura originali.

Capita poi di imbattersi in casi ancora più sconcertanti. Come mai Time of the Heathen (Peter Kass, 1961) – che narra la tragica fuga nel profondo Sud di un uomo ingiustamente accusato e di un ragazzo nero sordo, trasformandosi gradualmente in un allucinato appello alla tolleranza e al pacifismo – è rimasto invisibile dopo la sua prima uscita? Che piccolo miracolo, quel film!

Strani giorni

La critica alla segregazione e all’ingiustizia razziale espressa da Time of the Heathen non è un caso isolato nel programma di quest’anno. Piangi mio amato paese (Cry, the Beloved Country, 1951), nel quale un prete attraversa la Johannesburg dell’apartheid, è forse il primo caso, nel cinema, di presa di coscienza della questione razziale e della repressione. Il regista Zoltán Korda – esule ungherese giunto negli Stati Uniti dopo un periodo trascorso in Inghilterra – dovette far figurare Canada Lee (scomparso a soli quarantacinque anni, un anno dopo l’uscita del film) e un giovane Sidney Poitier come propri domestici per consentire loro di entrare in Sudafrica con un permesso d’immigrazione temporaneo: quale indicazione di razzismo più bruciante di questa?

Il doveroso omaggio al regista americano di origini berlinesi Michael Roemer comprende documentari e film di finzione, come il sincopato e divertentissimo ritratto di un gangster ebreo di piccolo calibro in Tutti contro Harry (The Plot Against Harry, girato nel 1969 e portato a compimento solo vent’anni dopo). Grazie ai suggerimenti di Ronnie Chammah e all’impegno instancabile dell’Harvard Film Archive proietteremo anche il fondamentale Nothing but a Man (1964), in cui Roemer, immigrato ebreo, evoca “l’insidiosa esperienza quotidiana del razzismo negli Stati Uniti, vista ora attraverso gli occhi di un nero alla ricerca di un lavoro e di una seconda occasione”.

Oltre al ritratto di Eldridge Cleaver, uno dei primi leader delle Pantere Nere, in Black Panther (William Klein, 1970), tra i pezzi forti dell’anno c’è il magnifico Bushman (David Schickele, 1971), su uno studente nigeriano a San Francisco alla fine degli anni Sessanta. Con una visione lucida della propria identità culturale, il protagonista si muove negli ambienti intellettuali dell’America bianca e scopre il volto nascosto del razzismo prima di essere deportato. Dopo la sua espulsione, il film dedica gli ultimi quindici minuti – in stile godardiano – a riferire dell’attore principale, che nella vita reale fu deportato come il suo personaggio. Questo è grande cinema: coraggioso, sincero, struggente dall’inizio alla fine.

Sorelle del cinema

Quest’anno le sorelle del cinema hanno una forte presenza da entrambi i lati della macchina da presa. Richiamiamo la vostra attenzione su una retrospettiva illuminante: l’omaggio a Suso Cecchi d’Amico, amorevolmente curato dai suoi figli. È uno sguardo di famiglia su una carriera che comprende la collaborazione a oltre 120 sceneggiature, ricchissimo contributo all’epoca d’oro del cinema italiano e non solo. Allora unica sceneggiatrice donna del cinema italiano, la d’Amico fu una maestra della ricerca sul campo, brava a capire e a conoscere la gente e a ideare dialoghi, situazioni e personaggi nati da una quotidianità insistentemente osservata e poi messa in parole. Mostrò una comprensione impeccabile delle diverse sfumature di un vivere fatto di gioie e di angosce.

La retrospettiva sulla direttrice della fotografia e regista Elfi Mikesch presenta cinque film da lei realizzati e offre – secondo le sue stesse parole – una tangibile rappresentazione visiva dei sogni che pertengono all’impossibile e al proibito. La selezione di Martin Koerber ci porta in un suggestivo universo di immagini che parlano di “passione, potere, amore, dolore e morte”.

Ma le donne puntano la loro macchina da presa anche su altre donne. Antonia: A Portrait of the Woman (1974), di Judy Collins e Jill Godmilow, rievoca la vita e la carriera della direttrice d’orchestra e pianista classica Antonia Brico. Le (vere) sorelle del cinema Clara e Julia Kuperberg hanno puntato la loro macchina da presa su Dorothy Arzner in Une pionnière à Hollywood, nuovo documentario sull’incredibile storia di una grande autrice della Hollywood classica che introdusse una serie di innovazioni nello studio system. Lee Grant, attrice spesso brillante, passa dietro la macchina da presa in Down and Out in America (1986) per indagare il devastante impatto delle politiche reaganiane sugli emarginati, mostrando un intenso impegno politico che non ha perso la sua attualità. Lo stesso impegno segnò la carriera della cineasta libanese Jocelyne Saab, che filmò tutti gli episodi salienti – rivoluzioni, guerre, atrocità – del Medio Oriente del Ventesimo secolo con brutale sincerità. Vedremo quest’anno il suo classico documentario del 1974, Les Femmes palestiniennes.

C’è poi da scoprire l’opera cinematografica dell’artista e filmmaker Joyce Wieland. Non è l’unica regista donna proveniente dal mondo della pittura. In Un  rêve plus long que  la nuit (1976), la scultrice e pittrice franco-americana Niki de Saint Phalle usa le immagini in movimento come nuovo mezzo d’espressione di sé. Ci sono poi registe donne che rivisitano e decostruiscono il lavoro delle loro controparti maschili: Chantal Akerman offre la sua ipnotica rivisitazione di La donna che visse due volte (1958) di Alfred Hitchcock in  La prigioniera (La Captive, 2000), che vedremo in versione restaurata.

Alcune sorelle del cinema dovevano essere sottratte all’ombra dell’abbandono e dell’oblio. La sezione dedicata alle dive russe del cinema muto italiano, frutto di una ricerca appassionata e di un meticoloso lavoro investigativo, è un’incursione in un mondo un tempo ritenuto scomparso per sempre. Il programma sulle grandi dive del muto, finora relegate a ipotetiche note a piè di pagina nei libri sui film perduti, testimonia il magnetismo incandescente di Diana Karenne, Helena Makowska, Thaïs Galitsky e Ileana Leonidoff.

Sweet Little Sixteen

“Sweet”, forse. “Little”, neanche un po’: fu il formato che rivoluzionò non solo la cinematografia (didattica, industriale, giornalistica, sperimentale, amatoriale, televisiva) ma anche le abitudini di visione e la circolazione del patrimonio cinematografico. Il 16mm, introdotto per la prima volta da Eastman Kodak, compie cent’anni. È uno splendido omaggio. Una certa generazione avrà visto i suoi primi film ‘proiettati’ così, in 16mm, nelle scuole, nelle chiese, nei centri ricreativi. Nella selezione curata da Karl Wratschko, tuttavia, troverete visioni poco adatte a chiese o moschee, come il mondo psichedelico dell’outsider Etienne O’Leary. Per completare la saga di questo formato, il programma presenta i trailer di film oggi perduti, nonché versioni condensate di lungometraggi originariamente girati in 35mm. Se pensate che la vita sia troppo breve, andate a vedere la versione di diciotto minuti di The Raven (1935), con Boris Karloff e Bela Lugosi: il terrore è più o meno intatto, ma manca proprio il corvo.

Le nostre storie del cinema

Nel 2020 un fotogramma di Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard è diventato il manifesto del nostro festival. Nel 2022 abbiamo proiettato il suo addio alla vita, distillato in uno sguardo in macchina sicuramente benevolo nel documentario À vendredi, Robinson. Se n’è andato due mesi dopo. Ci è sembrato quindi giusto invitarvi alla prima proiezione pubblica delle sue lezioni di cinema alla Concordia University di Montréal, risalenti alla fine degli anni Settanta, nelle quali offre riflessioni su cinema, economia, guerra, impegno politico e media.

Non abbiamo potuto fare a meno di pensare che Il Cinema Ritrovato, per molti versi, sia stata una versione dal vivo dell’opera più diretta di Godard sul cinema, Histoire(s) du cinéma: un sovrapporsi e accavallarsi di immagini, mentre storie parallele si intrecciano e si influenzano reciprocamente nei significati, con spirito lirico e lucidità analitica. Questo è ciò che Il Cinema Ritrovato cerca di fare con i suoi sei schermi, i due cinema all’aperto e i quasi 450 titoli distribuiti in più di 15 sezioni: vivere le Histoire(s) du cinéma in tempo reale.

Il Cinema Ritrovato è il luogo in cui immagini e idee s’incontrano. Benvenuti all’edizione 2023!