THE FOUR HORSEMEN OF THE APOCALYPSE
T. it.: I quattro cavalieri dell’Apocalisse; Sog.: dal romanzo “Los cuatro jinetes del Apocalipsis” (1916) di Vicente Blasco Ibáñez; Scen.: Robert Ardrey, John Gay; F.: Milton Krasner; Mo.: Adrienne Fazan, Ben Lewis; Scgf.: George W. Davis, Urie McCleary, Elliot Scott; Cost.: René Hubert, Walter Plunkett, Orry-Kelly (abiti aggiuntivi per Ingrid Thulin); Modelli dei quattro cavalieri: Tony Duquette; Mu.: André Previn; Eff. Spec.: A. Arnold Gillespie, Lee LeBlanc, Robert R. Hoag; Int.: Glenn Ford (Julio Desnoyers), Ingrid Thulin (Marguerite Laurier), Charles Boyer (Marcelo Desnoyers), Lee J. Cobb (Julio Madariaga), Paul Henreid (Étienne Laurier), Paul Lukas (Karl von Hartrott), Yvette Mimieux (Chi-Chi Desnoyers), Karlheinz Böhm (Heinrich von Hartrott), Prod.: Julian Blaustein per Metro-Goldwyn-Mayer 35mm. D.: 153’. Col.
Scheda Film
Per coincidenza, The Four Horsemen of the Apocalypse debuttò a New York due giorni dopo L’Année dernière à Marienbad. Sulle colonne del New York Times, Bosley Crowther prometteva agli spettatori del rompicapo di Resnais “le sensazioni particolarmente estreme di un’esperienza cinematografica completa”. Minnelli, con finalità e metodi differenti, offriva un’altra esperienza estrema. Vediamo un maestro di stile impegnato a mimetizzare col suo estro decorativo e i suoi giochi di colore un materiale altrimenti povero di realismo e di cuore.
La traduzione inglese del romanzo dello spagnolo Blasco Ibáñez era in vetta alle classifiche americane dei best-seller, con la sua storia romantica e tragica di cugini destinati a combattere su fronti opposti durante la prima guerra mondiale, e la versione cinematografica del 1921, con Valentino, non fece che prolungarne la popolarità. Alla fine degli anni ’50, la MGM era in piena ondata di “remake”; nel 1958 progettò una nuova versione di Apocalypse, mentre Ben-Hur di Wyler stava prendendo forma. Visto il fiasco dei recenti soggetti sulla prima guerra mondiale, gli studi cercarono di trasferire la vicenda nella seconda guerra mondiale, ma con evidenti difficoltà. Il casting contribuì a trasformare alcuni personaggi in marionette nelle mani del regista, perfette per formare splendide composizioni o dissimularsi negli effetti speciali. Glenn Ford non era l’equivalente anni ’60 di Valentino (Minnelli avrebbe voluto Alain Delon), ma era famoso ed era sotto contratto. Ingrid Thulin, la sua innamorata, aveva i suoi problemi, e gran parte delle sue battute furono doppiate da Angela Lansbury.
“Se questo film si doveva fare”, ricordava Minnelli, “dovevo riuscire a renderlo il più splendido possibile dal punto di vista visivo”. Nei dodici mesi di riprese non si impose limiti. Concepì il film come una sinfonia in rosso, colore che scivola anche negli inserti in bianco e nero dei materiali di repertorio. Ogni occasione per creare atmosfera venne sfruttata, dalle passeggiate al chiaro di luna sul lungo Senna nebbioso alla festa argentina, sgargiante come Carmen Miranda. E tutto venne studiato per il CinemaScope: il formato ideale a cogliere i Cavalieri (Conquista, Guerra, Pestilenza e Morte) che tuonano simbolicamente sullo schermo.
Il critico di Le Monde scrisse: “Riesce a esprimere mirabilmente la poesia delle cose”, ma avrebbe potuto aggiungere che Minnelli, a differenza di Resnais in Marienbad, riuscì a dare ai suoi eccessi barocchi una qualità che tutti potevano capire.
Geoff Brown