Pierrot le Fou

Jean-Luc Godard

T. it.: Il bandito delle 11; Sog.: dal romanzo Obsession di Lionel White; Scen.: Jean Luc Godard; F.: (Techniscope, Eastmancolor) Raoul Coutard; Mo.: Françoise Collin; Scgf.: Pierre Guffroy; Mu.: Antoine Duhamel, canzoni “Ma ligne de chance” e “Jamais je ne t’ai dit que je t’aimerai toujours” di Antoine Duhamel e Boris Bassiak; Su.: René Levert, Georges Liron; Int.: Jean-Paul Belmondo (Ferdinand Griffon, ‘Pierrot’), Anna Karina (Marianne Renoir), Dirk Sanders (Fred, “fratello” di Marianne), Graziella Galvani (Maria, moglie di Ferdinand), Raymond Devos (l’uomo del porto), Roger Dutoit e Hans Meyer (i due gangster), Jimmy Karoubi (il nano), Christa Nell (Madame Staquet), Pascal Aubier (secondo fratello), Pierre Hanin (terzo fratello), Principessa Aicha Abidir (se stessa), Samuel Fuller (se stesso), Alexis Poliakoff (marinaio), Laszlo Szabo (esiliato politico da Santo Domingo), Jean-Pierre Léaud (ragazzo al cinema); Prod.: Georges de Beauregard per Rome-Paris Films (Paris)/Dino De Laurentiis Cinematografica (Roma)/SNC – Société Nouvelle de Cinématographie; Pri. pro.: 29 agosto 1965 35mm. D.: 107’. Col. 

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

Il nome del titolo – Pierrot le fou – designa un leggendario criminale francese del dopoguerra, spericolato e spietato, ma alla lettera evoca anche la maschera malinconica innamorata della luna e la scintilla della follia. Nel film di Jean-Luc Godard, Pierrot le fou diviene sinonimo dell’avventura romanzesca. Infatti è attribuito a Ferdinand (coniuge mantenuto e insoddisfatto di una ricca italiana) da Marianne, che lo seduce e sottrae al grigiore coniugale e borghese, trascinandolo in un lungo viaggio – numi tutelari i fumetti dei Pieds Nickelés (che Ferdinand legge continuamente). Gli scenari parigini e le scacchiere urbane, finora privilegiate da Godard, sono abbandonati per un itinerario nel Midi costellato di morti derisorie, pericoli e gag. Sulla falsariga di una trama noir di Lionel White del genere “amanti criminali e in fuga”, Godard inventa una nuova variazione dell’amour fou e dell’impossibile armonia amorosa fra uomini e donne, avvelenata dal tradimento e qui destinata alla morte violenta. Contempla la natura, immergendo i due amanti in un Eden illusorio (come già avveniva in Le Mépris e come accadrà in Nouvelle Vague). Cita Elie Faure, Laurel & Hardy, Rimbaud, Picasso, Pierre-Auguste Renoir, Hitchcock, Minnelli, Michael Powell, King Vidor, Michel Simon, Chaplin e soprattutto (sotterraneamente) Bergman, “ospita” Fuller e Devos, mima la guerra del Vietnam. Adotta un iridescente ventaglio cromatico, dove i rossi, i verdi, i gialli, gli azzurri, i blu dominano il tessuto figurativo del film: «Che vediamo quando percorriamo Parigi di notte? Dei semafori rossi, verdi, gialli. Ho voluto mostrare questi elementi, ma senza doverli necessariamente mettere come sono nella realtà. Piuttosto come rimangono nel ricordo: macchie rosse, verdi, sprazzi gialli che scorrono. Ho voluto ricostruire una sensazione a partire dagli elementi che la compongono». Pierrot le fou chiude il periodo aperto da À bout de souffle e annuncia, ancora vagamente, la futura militanza politica di Godard. Contrariamente a ciò che si è creduto per decenni, un recente studio di Alain Bergala (Godard au travail. Les années 60, Cahiers du cinéma, 2006) ha dimostrato che fu realizzato dopo una attenta e lunga preparazione preliminare. Il co-produttore italiano Dino De Laurentiis, rimasto allibito dal film, ne fece tagliare circa dieci minuti nell’edizione italiana e gli attribuì un titolo che riecheggiava quello della traduzione francese del romanzo di White (Le démon de onze heures).

Roberto Chiesi

(…) All’inizio, c’è la Série noire… Qualche gangster, due decapottabili, delle armi, del sangue color ketchup, e infine il mare in fuga col sole… Per filmare questa fuga verso il sud, Godard ha scelto un formato adatto a tutto, il Techniscope, formato panoramico introdotto da Technicolor Italia nel 1963. Raoul Coutard ricorda: “Nel Cinémascope, si hanno quattro perforazioni sull’immagine poi si mette un anamorphosor che appiattisce l’immagine. Nel Techniscope, ci sono due perforazioni, vale a dire che si ha un’immagine che è direttamente in Cinemascope. (…) E quando la si tira, la si ingrandisce anamorfizzandola in modo che essa si ritrovi con quattro perforazioni per la proiezione. A quell’epoca, c’erano dei problemi di definizione della pellicola, con molte granulosità” (dichiarazione raccolta da Laurent Devanne nel 1999).

In effetti, le operazioni di laboratorio necessarie a stabilire gli elementi della stampa, specialmente dell’internegativo a quattro perforazioni che si realizzava su truca, hanno particolarmente incrementato la granulosità della copia finale. Oggi, l’interpositivo a due perforazioni tratto dal negativo Techniscope non esiste più, analogamente all’internegativo a quattro perforazioni. È stato distrutto perché, essendo stato usato troppo spesso, iniziava ad essere molto sciupato. Nel 1990 è stato elaborato un nuovo internegativo, questa volta su pellicola invertibile, come era usuale all’epoca, allo scopo di economizzare la stampa di un interpositivo e guadagnare così in qualità. Purtroppo l’emulsione Kodak 5249, assai complessa da sviluppare, poteva rivelarsi incostante nella qualità dei colori. Dopo aver permesso la stampa di quasi centocinquanta copie, il supporto è malandato e l’emulsione diviene instabile. Oggi questo elemento non riflette più le qualità dell’originale. Era dunque impossibile procedere a nuove stampe a partire dal 5249, senza perdita colorimetrica. Inoltre le attrezzature utilizzate all’epoca per effettuare delle stampe a partire da elementi Techniscope non esistono più. Era dunque essenziale procedere al restauro del film, allo scopo di renderlo visibile su grande schermo, ma anche per stabilire un elemento di preservazione stabile, diverso dal negativo originale. Il negativo originale era in buono stato fisico, dato che, tutto sommato, erastato utilizzato raramente, a parte qualche rigatura e delle punzonature di dogana all’inizio di ogni bobina. Tuttavia abbiamo notato delle leggere manifestazioni di decomposizione chimica. Questo elemento iniziava ad essere instabile, era tempo di agire. Per il restauro, abbiamo digitalizzato il negativo in 2K e proceduto ad un lavoro sull’immagine per recuperare i colori dell’Eastmancolor (emulsione Eastman Color Negative 5251) che cominciavano a patire. I principali problemi incontrati nel corso della campionatura sono legati alla natura stessa del Techniscope. Come anticipa Raoul Coutard, “ci si ritrovava a lavorare con delle focali molto più corte, quasi a fare del 16mm gonfiato. Questo ci ha posto dei problemi di stampa, di mancanza di definizione. Per ridonare una parvenza di definizione all’immagine, di nettezza, bisognava avere sempre un’immagine con dei contrasti relativamente elevati. Vale a dire con delle luci laterali. Non si poteva lavorare con la luce alle spalle, per esempio. Anche in esterni, bisognava girare in modo che ci fossero delle ombre perché l’immagine avesse una consistenza, sennò si otteneva un’immagine piatta, senza definizione. Ciò implicava quindi di lavorare in certe ore, di cambiare gli assi, gli angoli perché non riuscivamo a cogliere la luce migliore” (dichiarazione raccolta da Laurent Devanne nel 1999). In effetti, le variazioni di luce sono importanti, soprattutto nella sequenza girata nella pineta, passando dall’ombra dei pini alla luce accecante del sud. Talvolta l’immagine è al limite. Come spiega Coutard, il sole è spesso su una parte laterale dell’immagine e brucia così i colori. L’altro problema ricorrente in materia di campionatura fu l’incarnato degli attori. Poco o per nulla truccati che fossero, è stato necessario un lavoro minuzioso per recuperare la tinta naturale della pelle. Il film è stato girato nella quasi totalità in esterni e quindi in luce naturale, il che era d’altronde facilitato dal Techniscope. Contrariamente agli altri sistemi scope, questo sistema permetteva di lavorare con delle lenti classiche. Alcuni industrie di cineprese vantano anche le possibilità di adattamento al Techniscope, soprattutto Mitchell e Arriflex (le due macchine da presa utilizzate per Pierrot le fou). I lavori di restauro sono stati affidati a L.T.C., il laboratorio d’origine. Il restauro digitale è stato oggetto di un ritorno sul film, in formato anamorfico. Quanto al suono, siamo ripartiti dalla banda magnetica mono missata d’origine. Il suono è stato digitalizzato, pulito dai difetti non inerenti al sistema sonoro e riportato sul film per ottenere un nuovo elemento di conservazione conforme al formato d’origine. Oggi, per la prima volta, siamo in grado di apprezzare pienamente Pierrot le fou.

Camille Blot-Wellens (Cinémathèque Française) e Béatrice Valbin- Constant (StudioCanal), supervisori al restauro

Copia proveniente da

Restauro realizzato da
Restauro realizzato da
Con il supporto di

Restaurato presso Scanlab da Cinémathèque française e Studiocanal, con il supporto di the Franco American Cultural Fund