LES HALLES
R.: Boris Kaufman-Galitzine (?). L.: 340 m. D.: 11’a 18 f/s.
Scheda Film
Il programma che la Cinémathèque Française propone quest’anno è curioso: sei film, di cui cinque assai misteriosi. I loro autori, sconosciuti, sono ancora oggetto di ricerche, così come l’identificazione delle date di realizzazione precise dei film.
Les Halles, negli archivi della Cinémathèque, risulta firmato da André Galitzine. La sua realizzazione può essere collocata nella seconda metà degli anni venti. Il soggetto, la fotografia e alcuni dettagli inquadrati in primo piano apparentano il film, forse soltanto un frammento di un’opera incompiuta o perduta, al movimento generale della visione urbana e surrealista di Brassai e di Elie Lotar. Alcune foto scattate da quest’ultimo proprio a Les Halles, e pubblicate su riviste surrealiste o comunque vicine a questo movimento (come “Documents”), ricordano certi fotogrammi del film. Si tratta di un buon esempio del rinnovamento generale della visione negli anni venti: punto di vista documentario e ricerca plastica. Possiamo ipotizzare che il film sia stato girato dall’operatore Boris Kaufman: nel luglio 1930, infatti, venne presentato allo Studio 28 un film intitolato Les Halles Centrales, firmato Boris Kaufman-Galitzine. Si tratta dello stesso film?
Lumière et ombre, Etudes Cinématographiques e Pretexte, (conosciuto anche con il titolo Essais Cinématographiques) sono stati realizzati da un cineasta, Alfred Sandy, sul quale a tutt’oggi possediamo ancora poche informazioni. I tre film appartengono alla corrente del “cinema astratto”, rappresentata da autori come Henri Chomette, Hans Richter o Francis Bruguière. Sappiamo che Lumière et ombre venne presentato allo Studio 28 a partire dal 4 giugno 1928, mentre Etudes (o Essais) Cinématographiques venne proiettato dal 7 luglio al 21 agosto 1930. Lo Studio 28 aveva partecipato alla produzione dei due film. Sembra necessario promuovere una ricerca sulla personalità di Alfred Sandy, autore tuttora misterioso. I suoi due film meritano di essere annoverati fra le opere migliori del cinema astratto, basato sullo studio delle metamorfosi luminose e delle “cristallizzazioni” (movimenti di cristalli e anamorfosi di figure geometriche).
Fleurs meurtries venne realizzato nel 1930 da Roger Livet, di cui a tutt’oggi non possediamo notizie biografiche: si tratta di una figura artistica isolata, non appartenente ad alcun gruppo o movimento. Il suo film sembra ispirato ai temi iconografici di René Magritte, presentando a tratti veri e propri quadri animati del pittore belga. Ma René Magritte ha dichiarato a Christian Dotrément di non aver mai visto il film, mentre Roger Livet nega qualsiasi influenza da parte di Magritte. Tuttavia le citazioni dei suoi quadri, divenuti icone del surrealismo, sono numerose. La prima parte del film risulta essere una precoce riflessione sull’invenzione del cinema. Il film conobbe un periodo di popolarità all’inizio degli anni cinquanta, come risulta da alcuni annunci di proiezioni avvenute a Parigi nel 1953.
“Balançoires è una piccola perla nel cinema “parallelo” francese degli anni venti. Il suo pretesto narrativo filosofico-didascalico ricorda la Paris qui dort di René Clair (1923) in cui, con un incantesimo simile, una visione ottimista del mondo viene opposta a un avvenire oscuro. In entrambi i casi, l’immobilità o il rallentamento sono occasioni per giocare con gli effetti percettivi della cinegenia. In René Clair il responsabile dell’evasione dal mondo ordinario è un saggio. Noël Renard sceglie un fachiro. L’ambiente in cui si muovono i personaggi, tuttavia, non genera affatto familiarità psicologica. L’interesse del cineasta e della sua équipe (di cui fa parte il giovane Christian-Jaque) risiede altrove: nella parte documentaria e sperimentale. La fiera ambulante offre uno scenario e al tempo stesso un motivo di eccezionali visioni moderniste. La Torre Eiffel di Paris qui dort trova il suo corrispettivo nelle “montagne russe” e nelle numerose altre giostre che invitano a proiettarsi in aria. Ma in Balançoires il virtuosismo ottico gode di una doppia illusione prospettica: quella delle architetture metalliche e della loro velocità di rotazione o di attraversamento. Il film registra la velocità dello sguardo ma è soprattutto l’impiego della folla come materiale plastico l’idea che cattura oggi il nostro interesse. I cappelli a bombetta hanno il sopravvento, evocando irresistibilmente quelli volteggianti in Vormittagsspuk di Hans Richter (1928). Il ritmo del montaggio è indiavolato e si fonda sull’alternanza di regimi di velocità coniugati in vari motivi: volti in primo piano, folli giostre, baracconi della fiera, piani ravvicinati di piedi o altri particolari di corpi inquadrati tra la folla, acrobatiche riprese dal basso verso l’alto, inquadrature a tutto campo di un mare di cappelli, ecc. L’ingenuità della morale finale chiarisce le ragioni per cui il film non è mai stato ritenuto un capolavoro del cinema costruttivista o semplicemente dell’avanguardia. Benché un progetto teorico vi risulti in effetti assente, non possiamo ormai, tuttavia, ignorare questo film. Si tratta di un bellissimo esempio di quella “Nuova Visione” della fine degli anni venti”.
Dominique Païni