I RAGAZZI DELLA VIA PAAL

Mario Monicelli, Alberto Mondadori

R.: Mario Monicelli, Alberto Mondadori. S.: dal romanzo omonimo di Ferenc Molnar. Sc.: Mario Monicelli, Alberto Mondadori. F.: Cesare Civita. In.: Giulio Macchi ed altri attori non professionisti. D.: 60’. l6mm.

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T. it.: Titolo italiano. T. int.: Titolo internazionale. T. alt.: Titolo alternativo. Sog.: Soggetto. Scen.: Sceneggiatura. Dial.: Dialoghi. F.: Direttore della fotografia. M.: Montaggio. Scgf.: Scenografia. Mus.: Musiche. Int.: Interpreti e personaggi. Prod.: Produzione. L.: lunghezza copia. D.: durata. f/s: fotogrammi al secondo. Bn.: bianco e nero. Col.: colore. Da: fonte della copia

Scheda Film

Il film è il primo lungometraggio realizzato da Mario Monicelli. È stato ritrovato grazie a Cesare Civita, coregista del film, che ne ha rintracciata una copia. affidandola alle cura della Cineteca di Bologna, che l’ha prontamente restaurata. È un film sorprendente, che denota una grande maturità registica, chiaramente ispirata ai classici tedeschi, americani e russi, che Monicelli aveva frequentato nella sua giovinezza milanese. Così lo ricorda lui stesso: “[…] Facevo parte di un gruppetto in cui si coltivavano le stesse passioni. C’era Alberto Mondadori, che poi ha dovuto soffocare quella passione con scontri abbastanza duri con Arnoldo, il vecchio Titano che l’ha costretto ad entrare nella sua grande azienda, nella quale poi Alberto ha avuto un peso importante. […] Se avesse avuto la forza di resistere al padre e di fare il cinematografaro, sarebbe stato felice come uomo e forse avrebbe ottenuto di più, perché aveva una grande passione ed un grande talento. Poi c’era Alberto Lattuada che frequentavo a Milano, faceva l’architetto e gli piaceva molto il cinema. Anche a lui piaceva di più come inventore di favole che non come scenografo. Poi c’erano Riccardo Freda e Renato Castellani che appartenevano allo stesso Guf, cioè il Gruppo Universitario Fascista.

Il Guf era un posto dove ci si radunava per parlare di cinema. Fra l’altro non avevamo bisogno di andare li per trovarci, eravamo amici anche al di fuori. Anzi, Il ci si andava piuttosto per far vedere che facevamo delle presenze. Andavamo al cinema insieme, discutevamo. Parte di noi aveva fondato un giornale, Camminare. Fra gli altri c’era Sereni che era poeta, c’era Cantoni che era filosofo. Loro si occupavano dei loro interessi, e noi di cinema; c’era tutto un coinvolgimento. Fin da allora, negli anni tra il 1935 e il 1937, si sentiva che il cinema era la cosa che stava emergendo e che sarebbe stata la forma di espressione principale della cultura italiana del secolo, ma forse non soltanto di quella italiana.

C’erano pochissimi testi di critica o di teoria cinematografica a quei tempi: non arrivavano perché l’Italia a quei tempi era un paese molto provinciale. Quello che arrivava poteva arrivare solo dalla Francia, tradotto dal francese. […] la cultura ce la costruivamo da noi andando a vedere i film finché si è potuto, perché ad un certo momento sono stati vietati anche i film; è stata quindi un’esperienza tarpata.

Su Camminare facevo la critica cinematografica e mi accanivo molto contro i film italiani. Più che esaltarmi sui film francesi e su quelli americani, che amavo molto, mi dilettavo a rompere le scatole ai film italiani, forse anche per una forma di velata fronda antifascista. Li trattavo per lo più con disprezzo, esagerando anche, perché alla fin fine alcuni non se lo meritavano. I ragazzi hanno sempre un disprezzo verso i vecchi registi e quello è il segno che hanno qualcosa da dire. C’erano i film di Forzano e di D’Errico, che erano abbastanza cialtroneschi. Però io attaccavo anche Poggioli, che invece aveva qualcosa da dire, sia pure timidamente, come si poteva fare in una cinematografia di regime. Camerini era già più rispettato. E Palermi, che era un po’ un Rossellini ante-ante-litteram.

Questa era la mia posizione, e tutto sommato anche quella dei miei amici, nei riguardi del cinema che si faceva in Italia. Era un cinema finto, fasullo, non si svolgeva quasi mai in Italia, tutto si svolgeva o in ducati immaginari oppure in Ungheria. Era un cinema che non aveva niente da dire, che proponeva un evasione abbastanza ovvia e banale. Quando sono entrato poi nel cinema vero e proprio mi sono accorto però che c’era una grande cura per costruire l’immagine, per seguire l’attore, perché tutto funzionasse con il maggior rispetto possibile. […] Se si vanno a guardare quelle commedie della Merlini, di De Sica, di Besozzi, fatte prima della guerra, si vede che c’è una pulizia, una grazia nella fattura, che allora noi disprezzavamo molto. Sono film di una bella qualità, che però non avevano nessuna sostanza, per essendo molto rispettabili. […] Camminare era fatto con una certa pulizia grafica; ma non durò molto. Il MinCulPop, cioè il Ministero della Cultura Popolare, lo soppresse perché era considerato “di sinistra”. A quel tempo mi occupavo poco di politica nel giomale. Ci consideravano comunque dei giovani fascisti di sinistra, rigorosi, contrari alle corruttele, degli “ultra-fasci-sti” tutto sommato! Così questo giornaletto dette fastidio e gli misero i bastoni tra le ruote. […]

Prima del 1935 il cinema italiano non esisteva, praticamente. Fu il fascismo che con Cinecittà, con i buoni di doppiaggio e tutto il resto, costrinse ad inventare un cinema italiano che non esisteva più dai tempi di Pastrone. Tutta la nostra tensione e la nostra nostalgia andava però a quegli altri tipi di cinema che non si potevano più vedere da noi.

Nel 1935 lavoravo già in modo professionale. In precedenza avevo fatto, insieme ad Alberto Mondadori e ad Alberto Lattuada, un cortometraggio per i Littoriali della Cultura, che s’intitolava  Il cuore rivelatore, ed era tratto dal racconto di Poe. Venne bollato come esempio di “cinema paranoico”. Chissà perché lo girammo…forse per reazione a quello che si faceva allora. Durava una decina di minuti. lo inviammo ai littoriali con grandi speranze; speravamo che venisse poi proiettato nei Cineguf… invece niente.

Ma il colpo grosso nella mia carriera avvenne quando decidemmo di fare un film di lunghezza normale, di un’ora e mezza, ma a 16 mm e muto (allora non esisteva il 16 mm sonoro), senza didascalie, ma in modo che tutto fosse ugualmente comprensibile. Scegliemmo di fare I ragazzi della via Paal lo girammo tutto a Milano, in interni ed esterni, l’operatore era un nostro amico, si chiamava Civita, un ebreo un po’ più anziano di noi che si occupava di editoria. […] Era molto appassionato di fotografia, possedeva una modernissima cinepresa a 16 mm, e aveva realizzato un documentario che si chiamava Udor, cioè Acqua, molto bello, che mostrava l’acqua sotto varie forme.

Tra i protagonisti del nostro film prendemmo un giovinetto che faceva gli ultimi anni del ginnasio; era Giulio Macchi, divenuto poi regista cinematografico e televisivo.

Lo stile de I ragazzi della via Paal era realistico anche per forza di cose; perché lo ambientammo in una segheria dove i ragazzi si davano battaglia; perché giravamo in estemi e in appartamenti dal vivo. Cuore rivelatore fu invece costruito con una scenografia di cartone fatta da Lattuada: una finestra, un albero scheletrico, un letto in un ambiente nudo: ci rifacevamo agli espressionisti tedeschi.

Il romanzo de I ragazzi della via Paal aveva avuto grosso successo in tutto il mondo; tanto è vero che lo adattò anche Frank Borzage negli Stati Uniti uno dei registi preferiti di allora perché possedeva un tono intimista, romantico e piccolo-borghese.

Inoltre scegliemmo quel romanzo perché allora si potevano fare solo delle storie ambientate in Ungheria: le storie italiane o erano agiografiche o erano strappalacrime. Soprattutto non potevano esserci adulteri, suicidi, amori più che candidi. Per fare delle storie un po’ più movimentate l’escamotage consisteva nell’ambientarle o in Ungheria o in Francia. lo, poi, ero affascinato dai film francesi, da Duvivier, da La bella brigata, da René Clair, Camé, Renoir, Feyder: i nostri dei. Non ero mai andato in Francia: ero di un provincialismo chiuso, sia io che gli altri amici che mi circondavano.

I ragazzi della via Paal era un film drammatico, finiva con la morte del ragazzino; col senno di poi, credo che allora fossi molto indeciso se trattare temi di grande impegno drammatico, psicologico, direi anche truculenti, oppure invece temi ironici e satirici. Era a seconda dei film che vedevo: se vedevo un film di Renoir avrei voluto fare quello li, se vedevo un film di René Clair cambiavo idea! Certamente questi miei primi due tentativi non avevano niente di umoristico né di divertente. La verità è che credo siano pochissimi quelli che cominciano una loro carriera espressiva facendo dei film comici. È difficile che un ragazzo applichi questo tipo di filtro. (Mario Monicelli, L’arte della commedia, Dedalo)

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