Band Of Angels
T. it.: La banda degli angeli. Sog.: dal romanzo omonimo di Robert Penn Warren. Scen.: John Twist, Ivan Goff, Ben Roberts. F.: Lucien Ballard. Mo.: Folmar Blangsted. Scgf.: Franz Bachelin. Co.: Marjorie Best. Mu.: Max Steiner. Su.: Francis Stahl. Int.: Clark Gable (Hamish Bond), Yvonne De Carlo (Amantha Starr), Sidney Poitier (Rau-Ru), Efrem Zimbalist Jr. (Ethan Sears), Rex Reason (Seth Parton), Patric Knowles (Charles de Marigny), Torin Thatcher (capitano Canavan), Andrea King (Miss Idell), Ray Teal (Mr Calloway), Russell Evans (Jimmee), Carolle Drake (Michele), Raymond Bailey (Mr Stuart), Tommie Moore (Dollie). Prod.: Warner Bros. Pictures. Pri. pro.: 3 agosto 1957 35mm. D.: 125’. Col.
Scheda Film
Dopo essersi adoperato per pagine come al solito brillanti, e più del solito tendenziose, a smontare il mito di Via col vento, Jacques Lourcelles invita chi voglia “afferrare la poesia specifica del Sud in questo periodo della sua storia, la potenza romanzesca dei conflitti che vi ebbero luogo”, a rivolgersi al “superbo” Band of Angels, girato da Walsh diciotto anni dopo. Si può essere in appassionato disaccordo con la valutazione lourcelliana di Via col vento, ma non c’è dubbio che Band of Angels reclami da sé un ironico confronto: fin da quei titoli di testa che esibiscono il primo piano d’un grande albero e una casa coloniale sullo sfondo, tutto però addomesticato in una trama pointilliste che forse s’ispira ai ricami al piccolo punto. La poesia del Sud, dunque, con le sue piantagioni e le sue mansions, è ormai solo ciò che alberga nella fantasia d’una signorina beneducata e avvezza all’ago e al filo? Un temperamento orgoglioso e destinato a svariate traversie, una Scarlett O’Hara con una goccia di sangue nero nelle vene? In un’epoca che già sente addosso il declino dello studio system, Walsh prende il film che di quel sistema è massimo exemplum e massima eccezione, lo svuota, lo riempie d’altro. Lo riempie di tutto ciò che il film del 1939 aveva rimosso: quella goccia di sangue nero nelle vene della pallida Yvonne De Carlo diventa qui torrente (narrativo) in piena, affiora nella tentata fuga di due schiavi, scorre lungo le ‘voci di libertà’ che dal Nord rimbalzano fin nei discorsi d’una servetta querula, si allarga al piano d’insieme degli schiavi che accolgono a Pointe de Loup il loro ‘buon padrone’, scena magnifica, da musical etnografico-allucinatorio, monta nell’odio del figlio-liberto Sydney Poitier che con il (moderato) linguaggio politico del 1957 si ribella alla venefica ‘gentilezza’ dei bianchi; e infine quel torrente tutto travolge nella scena madre in cui Clark Gable, “gli occhi come fessure aperte sull’abisso”, rievoca con crudezza ancora impressionante il suo passato di mercante di schiavi, e “la tessitura narrativa si disfa e il presente, gonfiato dall’irruzione del passato, si slabbra” (Toni D’Angela, nel suo recente Raoul Walsh o dell’avventura singolare). Insomma la negritude è dappertutto, nell’epica disillusa in cui “freedom is a white word”, come dovunque è l’idea di sconfitta, “perché nessuno può sfuggire a quello che è”: né chi resterà negro anche nel Sud liberato dagli yankee, né chi porterà sempre con sé il negriero che fu. Eppure quanta walshiana dolcezza in quell’abbraccio ai bordi d’un fiume placido, la barca che aspetta, e l’ultima avventura concessa, fuori tempo massimo, al suo vecchio eroe/divo/alter ego… Ribollente di giovinezza e di insolenza, quello di Via col vento era un finale di sfida; questo di Band of Angels è un finale di consolazione (e sia detto con il massimo rispetto, s’intende, per questa meravigliosa parola).
(Paola Cristalli)