20,000 Years In Sing Sing
T. It.: 20.000 Anni a Sing Sing; Sog.: Courtney Terrett, Robert Lord Dal Racconto Dilewis E. Lawes “Twenty Thousand Years In Sing Sing”; Scen.: Wilson Mizner, Brown Holmes; F.: Barney Mcgill; Mo.: George Amy; Scgf.: Anton Grot; Co.: Orry-Kelly; Mu.: Leo F. Forbstein; Int.: Spencer Tracy (Tommy Connors), Bette Davis (Fay Wilson), Arthur Byron (Il Capo Guardiano), Lyle Talbot (Bud Saunders), Warren Hymer (Hype), Louis Calhern (Joe Finn); Prod.: Warner Bros. Pictures; Pri. Pro.: New York, 24 Dicembre 1932; 35mm. D.: 78′. Bn.
Scheda Film
Trovarsi sulla soglia di un carcere può anche essere un’esperienza nuova, forse è persino un momento memorabile: dopo il suo ingresso, però, un uomo diviene soltanto un numero. Il tema del numero nel titolo del film si riferisce ai futuri anni complessivi dei compagni in galera. 20,000 Years in Sing Sing è una storia dell’umanità messa a nudo in cui il tema dell’anonimato è illustrato con tutti i mezzi della narrazione lampo della Warner: tramite collage, ellissi, e, ovviamente – soprattutto quando si tratta di Curtiz e del suo scenografo Anton Grot – con il dialogo tra la luce e l’ombra. In quegli anni Curtiz e Grot facevano quasi una produzione di massa con simpatica genuinità; e allo stesso tempo ogni fotogramma aveva una sua singolarità. Anche qui, su ispirazione dell’argomento, le ombre si aprono persino dal soffitto, come le lame della ghigliottina. Il salto suicida dai piani alti nel corridoio è stato realizzato con due immagini e in maniera tale che il famoso stile Curtiz-Grot raggiunge la perfezione.
Il film misura la sfrontatezza umana, una miniatura dei significati e delle ironie della vita, come quell’intuizione del direttore della prigione secondo cui le persone, fuori, credono di essere “libere e uguali”, mentre lo sono solo qui, nel cantuccio dell’uguaglianza e completamente denudati. Anche il lato “romantico” ha frecce al suo arco. Spencer Tracy e Bette Davis raramente sono apparsi cosi ispirati. Come sempre nei grandi melodrammi, l’elemento fondamentale del realismo, qui con una sfumatura amara, è l’improbabilità. Le possibilità favorevoli del mondo e dell’uomo sono scarse: è un gioco, dominato da un’ironia furiosa, che può solo essere perduto. Anche lo spettatore diviene fatalista e subisce, quanto i personaggi, l’alternanza tra piccole speranze e grande pessimismo. Così succede guardando la scena ipnotica in cui Tracy, condannato a morte, ottiene un permesso di libera uscita dal quale promette di tornare “even if it means chair to me…”. I momenti brevi – mai qualcos’altro – della felicità passano veloci, come un sogno sfuggente. Di certo c’è solo la morte, il cui meccanismo di per sé interessa Curtiz. Nel suo universo l’immagine centrale dell’anima è il sentiero della morte, quel death row in cui le circostanze e lo spettro dell’inferno umano probabilmente non sono stati descritti in modo più integro da nessuno.
Peter von Bagh